Voi credete che la vera e propria decimazione delle nostre aziende avvenuta dopo le due ondate di crisi del 2008 e del 2011 dipenda dalle lungaggini della nostra pubblica amministrazione? Io no. Voi credete che se abbiamo avuto un crollo nella produttività rispetto agli altri paesi europei pur in presenza di una comune stagione di crisi, dipenda dalla burocrazia? Io no. Voi credete che se prima le nostre banche sostenevano le aziende e ora le strangolano appena sono appena fuori fido, dipenda dalla sovrapposizione legislativa di Stato e regioni e dalla, effettivamente mostruosa, pletora di regolamenti prodotta a più livelli ? Io no. Voi credete che la pubblica amministrazione incida anche minimamente sul fatto che al momento del passaggio generazionale solo una azienda su tre ne esce indenne? Io no. Voi credete che la crisi/trasformazione dei distretti produttivi cresciuti per lo più in simbiosi con buone pratiche di governo locale e regionale sia frutto di un improvviso impazzimento o istupidimento di sindaci e presidenti di regione? Suvvia!
Allora l’azione pubblica non c’entra nulla con il futuro imprenditoriale del nostro paese, con la competitività delle nostre aziende? Certo che sì e anche parecchio.
Ma attenzione a definire con il nome giusto ciò di cui si parla.
Potrebbe non trattarsi di pubblica amministrazione bensì di politica industriale o per meglio dire politiche industriali. Sono quelle politiche che da troppo tempo i governi hanno smesso di fare perché per il consenso immediato fa più comodo elargire qualche benefit, qualche una tantum, o lisciare il pelo agli imprenditori e sputtanare la pubblica amministrazione che sforzarsi di scegliere, analizzare, indirizzare. Fa troppo dirigista, programmazione, piano, e noi da un trentennio siamo sotto la “dittatura” iper-liberista e ne siamo assuefatti. Prendersi la responsabilità di disegnare strategie sembra non essere considerato sufficientemente moderno quanto lo è la pioggia che annaffia ortaggi e sterpi allo stesso modo. Si tratta di quelle politiche che rispondono ad una visione, realistica e spietata, del ruolo attuale e potenziale che le nostre produzioni possono avere nel mondo, del sostegno al rinnovamento tecnologico necessario che va assicurato alle imprese che possono farcela, dell’innalzamento medio dei livelli di conoscenza della popolazione che acquista e in particolare di quella che produce ovvero dei lavoratori e delle lavoratrici, dell’abbattimento del digital divide, necessario per alzare il livello qualitativo delle nostre produzioni e per affrontare un mercato planetario dove contano oltre i prodotti, la capacità di diversificare, la padronanza delle lingue, del diritto, delle relazioni internazionali e una riflessione meriterebbero subito le Camere di Commercio che sono interessate da una controversa riforma e gli Istituti di Commercio con l’Estero, strumenti, entrambi, fondamentali, diventati troppo spesso altre cose dove esempi eccellenti, amministrazione lassista e pochezza delle associazioni degli imprenditori si sono a lungo mischiate e che ora rischiano il classico destino del bambino con l’acqua sporca.
Conta molto la struttura del mercato dei servizi di cui può godere il sistema paese, postali, telefonici, elettrici, energetici, logistici; conta la diffusione e la capacità della rete. Ma anche qui il ruolo della pubblica amministrazione è divenuto via via pressoché marginale stante che si tratta di servizi contesi e gestiti per lo più da aziende quotate in borsa , quindi a tutti gli effetti private, qualche volta partecipate da un azionariato pubblico, che godono di particolari attenzioni anche finanziarie da parte del sistema politico molto interessato alle nomine. Ma sono pur sempre gestite alla stregua di aziende private sia per quanto riguarda il mercato del lavoro, sia per le regole che le guidano nel mercato. Come se non bastasse sono le stesse associazioni delle imprese che mentre si lamentano dei servizi al pubblico che queste aziende private forniscono spingono per una privatizzazione ancora più spinta e, a parole, per un mercato ancor più concorrenziale. Dico a parole perchè dal mio piccolo osservatorio mi pare di vedere che il desiderio di un mercato più concorrenziale dove si presume debba prevalere il merito, sia più una cosa da dirsi nei convegni che una vera volontà degli imprenditori, i quali sono spesso alla ricerca di un mercato non dico protetto ma quanto meno riparato. Vogliamo parlare delle concessioni demaniali date a imprese turistiche e delle norme europee?
Conta il sistema di welfare oggi considerato un peso e che in vece non a caso fu inventato da un signore di nome Bismarck, il quale aveva poco a che fare con le idee socialdemocratiche ma molto a che vedere con l’idea di una grande Germania industriale. Vi sono echi di quell’approccio anche nelle politiche per l’immigrazione che vedono impegnata oggi la signora Angela Merkel.
Conta il sistema dei trasporti, la logistica, ma non ho sentito ancora vere e proprie autocritiche sul fatto che eravamo stati fra i primi a puntare sulle ferrovie quasi due secoli orsono e ci ritroviamo ora con un ritardo accumulato di decenni a causa di politiche che hanno assecondato le (la) imprese (a) dominanti (e). Oggi fra l’altro sedotti e abbandonati. Anzi la spinta è sempre per strade sempre più grandi in barba ai cambiamenti che hanno irreversibilmente segnato il nostro sistema economico e la crescita di interesse per beni deperibili ma non delocalizzabili come il paesaggio, i beni culturali e ambientali.
Contano i porti, oggi anch’essi interessati da una riforma che prevede l’accorpamento delle autorità di gestione, qualche possibile snellimento nella approvazione dei piani regolatori, ma per i quali non si intravede una strategia politco-economica, con il rischio che anche questa riforma come quella delle Camere di Commercio passi più come il solito scalpo da esibire in nome del risparmio, del taglio, dell’accorpamento da propagandare nelle solite conferenze stampa e con i soliti tweet.
Conta l’Università e la ricerca che vi si svolge. Perché nelle relazioni dei presidenti di Confindustria non si parla del calo di 65000 matricole in dieci anni, di 11000 docenti, del 22,5% del Fondo di Funzionamento Ordinario ? Perché non si propone di ridurre drasticamente le tasse per chi frequenta l’Università, mentre si ripete la litania del carico fiscale a carico delle imprese? Una bella proposta: reimmettere una sostanziosa tassa di successione,che è una cosa liberale,e annullare le tasse universitarie ! E che dire del silenzio che cala sempre su un dato che sta lì chiaro come il sole: in Italia per la ricerca pubblica si spende come nella media degli altri paesi europei, mentre è molto al disotto della media la ricerca privata, quella appunto che dovrebbero fare le imprese!
E quanto è dannosa per la salute del nostro sistema di imprese l’evasione e l’elusione fiscale? Dietro alla corruzione anche della pubblica amministrazione o alla infiltrazione di poteri criminali nel sistema economico ( 70 cosche nella sola Roma dice il rapporto 2015), penso allo smaltimento illegale dei rifiuti tossici, c’è di sicuro quasi sempre un dipendente pubblico delinquente ma non c’è forse anche la partecipazione diretta di imprenditori anche blasonati? Questi non sono di certo vittime delle regole, ma volutamente vanno contro le regole, cercano in ogni modo di “ saltare la fila ” per competere scorrettamente con i loro colleghi. E non vi è mai capitato di vedere sui giornali che quell’imprenditore ha patteggiato una pena per un reato e poi magari trovarvelo nominato come esperto da qualche parte o a pontificare in qualche talk show?
Dico questo perché si fa presto a dire banalità ma parlare di pubblica amministrazione e imprese in primo luogo significa liberarsi dall’idea che qualcuno virtuoso possa stare sul banco degli accusatori e qualcun altro negligente deve stare per forza sul banco degli accusati. Non è così, chi non vede in verità non vuole vedere. Esiste un problema che si chiama sistema paese e dentro il sistema paese il sistema imprenditoriale.
Uno dei problemi più seri che questo paese ha è l’etica ( in omaggio alla rivista che mi ospita!) e le imprese ci sono dentro fino al collo, anzi spesso sono un moltiplicatore molto attivo di questo fenomeno italico. Allora senti dire, ma cosa dobbiamo fare, se non si fa così mica si sopravvive! Fanno tutti così! Questa litania l’ho già sentita dire anche da qualche collega politico a proposito del rapporto fra politica e moralità. Non l’ha ordinato il dottore di fare politica e se fai politica onestamente non diventi ricco a meno che tu non lo sia già. Così per l’impresa, non l’ha ordinato il dottore di fare l’imprenditore e se non riesci a farlo onestamente è bene che il sistema si difenda da te e che in primo luogo il sistema imprenditoriale ti butti fuori. Ma non accade,né in politica né nell’impresa. Questo è un problema enorme. Questo è il problema! Ci sono paesi dove i codici etici redatti dalle singole categorie professionali valgono più di una legge, da noi il rischio è che se sostieni l’utilità di un codice etico ti ridano dietro e ti prendano per matto. Non il popolo ma le elite a partire dai giornalisti!
Quante aziende ci sono che partecipano ad appalti solo per incassare la prima rata e poi aprire contenziosi infiniti ? Quante aziende sono di fatto solo una sigla e uno studio legale? Quante sono quelle che hanno avuto liti con le amministrazioni e hanno avuto torto e che poi con qualche altro nome si ripresentano alle gare delle stesse amministrazioni?
E quante volte il sistema dell’autocertificazione, uno dei più solidi strumenti di semplificazione nel rapporto fra imprese e amministrazione, viene vanificato dal rifiuto sistematico dei professionisti di autocertificare. Chiedetevi perché? Perché non se la sentono di certificare bilanci che al primo controllo si rivelano fallaci, a certificare stati di fatto di immobili infarciti di opere abusive che si intendono surrettiziamente condonare, a certificare progetti esecutivi che sono poco più che dei progetti definitivi e comunque ben lungi dall’essere appaltabili. Preferiscono la strada ordinaria della istruttoria anche se è molto più lunga perché così la responsabilità è della amministrazione e magari si trova sempre il modo di accelerare una pratica con un funzionario compiacente, costa molto meno ed è molto meno rischioso. Come in ogni cosa prevale ciò che è più conveniente, la corruzione lo è purtroppo, pensate a tutto il sistema delle varianti in corso d’opera per opere appaltate di una certa complessità e costo, è come portare un bambino in pasticceria e dirgli : ora dacci sotto! Pensate che questo fu addirittura sistematizzato in una legge: “la legge obiettivo”, n.443 del 2001, la quale a proposito di semplificazione e tempestività accentrava tutto su un soggetto autorizzante il CIPE e un soggetto attuatore , il general contractor che procedeva alla progettazione per fasi successive, scavalcando comuni e regioni. Un vero disastro morale, finanziario e di risultati della serie chi vi dice che accentrare significa fare, fare bene e più rapidamente mente sapendo di mentire.
Questo è il grande tema che sottende le difficoltà a decollare che ha il nuovo codice degli appalti, ovvero una delle riforme più importanti che sono in gioco lungo la linea del rapporto fra imprese e pubblica amministrazione. Un prodotto che può qualificare questo governo poiché rappresenta una cesura netta con la “legge obiettivo” manifesto dell’era Berlusconi –Lunardi; introduce un Rating reputazionale delle aziende una sorta di white list che qualificano le aziende in positivo nei confronti delle amministrazioni; da un ruolo rilevante all’ANAC affermando la volontà di porre al centro il tema della prevenzione della corruzione come fattore decisivo nella relazione fra imprese e amministrazione; da un senso compiuto al valore della progettazione esecutiva; supera la logica nefasta dell’affidamento al “massimo ribasso”. Insomma luci non mancano e non è per nulla singolare che in un primo momento le imprese abbiano applaudito queste novità e ora che le hanno capite meglio le criticano. Ma il baco è sempre presente anche nella mela apparentemente più bella: che dire del fatto che l’80% degli affidamenti sfuggirà ancora alle gare aperte, confermando fino alla soglia di un milione di euro l’opacità di quegli affidamenti previo inviti ? Lo so che è stata una pressante richiesta anche dei miei colleghi sindaci, ma è sbagliata ed è stato un errore cedere da parte del Governo. E che dire del decreto “ sblocca opere” contenuto nel pacchetto Madia di cui accenno qui perché contraddice nettamente lo spirito del nuovo Codice degli appalti. Mi stupisce che Cantone non abbia avuto nulla da ridire. Questo provvedimento mette in capo al Presidente del Consiglio e/o a chi lui stesso deciderà di delegare i poteri , la possibilità di scegliere quali sono gli interventi per cui dimezzare i tempi di autorizzazione, esercitare potere sostitutivo per l’espressione dei pareri, a me pare l’anticamera di quello che un tempo con un termine colorito si chiamava mercato delle vacche. In un contesto dove già tutto tende a concentrarsi attorno alla Presidenza del Consiglio, lo scenario me lo immagino di già e francamente suggerirei di evitarlo.
L’altra è la riduzione delle stazioni appaltanti per quanto concerne l’acquisto di beni e servizi da parte della Pubblica Amministrazione. Una operazione anche questa molto contrastata, che va costruita con saggezza e con gradualità per evitare che al primo intoppo ci sia una spinta al “roll back”. Qui ci giochiamo molta della reputazione della politica, delle imprese, della amministrazione. Aumenta la richiesta di qualificazione della amministrazione che deve sapere bene cosa vuole comprare e non farselo suggerire dal consueto fornitore, aumenta la richiesta di qualificazione delle imprese, aumenta la possibilità di fare controlli, aumenta il carattere “impersonale”della relazione fra impresa e amministrazione. Ricordo che quando con l’attuale ministro Andrea Orlando lavorammo da deputati e dirigenti del PD ad una proposta di legge di contrasto della corruzione che poi transitò in buona misura nella attuale legge Severino, uno dei punti qualificanti che portammo noi del Forum della Pubblica Amministrazione del PD fu,fra gli altri, proprio questo: ridurre le stazioni appaltanti, potenziare Consip.
Una attenzione particolare va tuttavia riposta a quegli appalti che hanno per oggetto dei servizi alla persona. Qui a mio parere il gigantismo conosciuto negli ultimi decenni dallo stesso sistema delle cooperative spinto dall’insano metodo dell’affidamento al massimo ribasso, non è stato un percorso virtuoso né in termini di qualità del servizio nè in termini di qualità delle imprese. Quando si ha a che fare con la persona che magari ha problemi particolari il servizio va affidato con criteri diversi e la continuità relazionale fra operatore e destinatario è un dato rilevantissimo. Questo senza nulla togliere al valore del sistema cooperativo in particolare di quello sociale, dovrebbe spingere verso la reinternalizzazione di diversi servizi che tagli alle risorse e blocchi delle assunzioni del personale hanno fatto uscire dagli enti, oppure ad un fenomeno di ripensamento della stessa cooperazione sociale che sia ispirato ad un effettivo e maggiore legame con il territorio.
Per renderci conto di quanto sia complesso l’intreccio delle questioni, l’obiettivo della riduzione delle stazioni appaltanti per essere gestito non in modo burocratico ma democratico, ha qualcosa a che fare con la riforma istituzionale delle province,con il decollo o meno delle città metropolitane e dei livelli di gestione di area vasta, con il successo o meno del processo di unione o di fusione dei comuni. Cosa che analogamente ha avuto un peso e ha tuttora una rilevanza centrale nella diffusione e nella funzionalità dei SUAP, sportello unico per le imprese introdotto addirittura nel 1998 dal D.Lgs 112 in piena stagione riformista dell’Ulivo.
Queste sono le cose rilevanti che l’amministrazione pubblica deve fare per favorire processi virtuosi dello stesso sistema delle imprese e mettersi in condizione di raggiungere margini di efficienza, efficacia e economicità che la situazione esige. Esse attengono alla definizione di regole per la trasparenza del mercato e nel mercato, a misure di contrasto della rendita, alla predisposizione di un ambiente favorevole alla imprenditorialità a partire dalla legalità e dalla lotta alla corruzione.
Anche da questo Governo si insiste molto, a parole, sull’aspetto fiscale, ma al netto di alcune cose macroscopiche come l’IMU sugli imbullonati che per certi versi era demenziale per il resto il fatto che dalle dichiarazioni dei redditi venga fuori che gli imprenditori pagano meno dei loro dipendenti la dice lunga sul fatto che non è questa la strada principale per dare una mano alle imprese. Il tema è piuttosto la semplificazione degli adempimenti fiscali. L’insopportabilità sta nel fatto che si debba molte volte pagare in professionalità aggiuntive e in termini di ore perdute più di quanto si paghi effettivamente in imposte. Questa è una misura che l’amministrazione assieme alla politica deve mettere in agenda. Alleviare la fatica di pagare a chi è onesto e vuole adempiere al proprio dovere. Da gennaio 2016 a tutto agosto 2016 i giorni occupati da diverse scadenze di tipo fiscale che vanno onorate sono 42. In ognuno di questi 42 giorni vi sono scadenze anche plurime che ovviamente non riguarderanno la singola impresa ma complessivamente il sistema. Ci sarà un modo per semplificare? Io credo proprio di si. Il fatto è che fa più effetto dire in un tweet ti abbuono questo, puoi dedurre quello, che mettersi lì a ridisegnare un sistema fatto dagli azzeccagarbugli per gli azzeccagarbugli; è un po quello che per un sindaco passa fra rifare le fogne che non si vedono o rinnovare panchine e pali della luce che si vedono.
Io non sono un imprenditore, ma siccome quello che sto per dire fa imbufalire il singolo cittadino immagino che al quadrato questo accada ad un imprenditore. E’ intollerabile che l’amministrazione non si fidi di se stessa e non usi i documenti di cui già dispone replicando procedure e produzione di documenti. Ora questo è stato oggetto di tutti i tentativi di semplificazione cui i diversi governi si sono applicati. Quindi questi comportamenti da parte degli amministrativi sono illegali? In buona parte sì sono abusi e poi a questi si aggiungono i famosi regolamenti attuativi delle leggi approvate, che non arrivano mai e che rappresentano una formidabile barriera protettiva della pigrizia. Peggio mi sento se penso ai controlli: controlli di sicurezza sul lavoro, controlli sanitari, controlli di prevenzione e gestione di emergenze, controlli ambientali e sicuramente qualcosa mi sfugge. E’ come se il sistema dei controlli debba legittimare l’utilità del lavoro dei controllori che effettivamente perseguire uno scopo ovvero tutelare il lavoratore e l’ambiente prova ne sono il numero degli incidenti mortali che è calato solo grazie al fatto che è diminuito il lavoro, oppure la piaga del caporalato o l’evasione contributiva a cui oggi si aggiunge il seguente fenomeno: questa è la busta paga regolare, tu firmi di averla ricevuta, poi io ti do la metà o un terzo di quanto ti spetta e se va bene è così altrimenti te ne vai. Vi siete mai imbattuti in un piano per la sicurezza, o nei verbali necessari per la gestione del rischio in agricoltura? Quanto di quella montagna di moduli agisce effettivamente sull’obiettivo. Ecco questo è un altro terreno che fa impazzire un imprenditore onesto con qualche buona ragione.
Sulla base della mia più che decennale esperienza mi sono fatto persuaso che un bravo politico è quello che ad un imprenditore che gli si rivolge sa dare certezza. La risposta certa e tempestiva per una impresa è quasi tutto. Sì o NO. Il “vedremo cosa si può fare” è una forma ambigua che significa buttare all’aria buoni affari o perdersi in lungaggini con il rischio perenne di acconciarsi alla corruzione. La certezza dunque della risposta è un grande strumento economico e morale. Invece noi abbiamo avuto una amministrazione abituata per decenni a non prendersi la responsabilità di dare una risposta a cercare comunque e sempre un precedente oppure una scappatoia per poter dire non è mia la responsabilità della scelta. Vogliamo fare una vera riforma della dirigenza: introduciamo un merito a chi sa prendere decisione autonomamente e non a chi dice di sì al politico di turno. Tutto questo nonostante che da ventisei anni esista una legge che voleva spezzare questo andazzo delle cose. Sta di fato che da un quindicennio a questa parte tutti i governi si sono cimentati con questo tema : attuare lo spirito e la lettera della 241 del 1990, dare semplicità e certezza alle procedure di autorizzazione per la realizzazione di opere pubbliche e private. Anche questo governo ci sta provando: dalla Scia ( segnalazione certificata di inizio attività) per cui si prevedono certezza e accessibilità alla modulistica e semplificazione nel caso in cui siano necessarie più Scia per lo svolgimento della stessa attività; alla nuova regolamentazione della Conferenza dei Servizi che mi convince molto poiché mette tutti i soggetti interessati al processo autorizzatorio nelle condizioni di pronunciarsi senza dare però a nessuno un implicito diritto di veto fatto di mancate partecipazioni, oppure di silenzio rifiuto. Sono assolutamente del parere che il perno di una buona amministrazione sia il diritto del cittadino ad avere risposte certe in tempi certi, ma tutti sappiamo che in un modo o in un altro questo principio fissato dalla 241 del 1990 è stato sistematicamente aggirato.
Per tutta questa parte che possiamo definire di semplificazione è ovviamente decisivo il progresso tecnologico applicato alla gestione delle imprese e della amministrazione pubblica e alla possibilità delle imprese di far ricorso alla rete per ottenere risposte e servizi dalla pubblica amministrazione. E su questo marchiamo un ritardo preoccupante rispetto alla media europea, il Digital Economy and Society Index ci colloca al 24° posto su 28, se poi si entra più nel dettaglio si vede che siamo al 27° per uso di internet e per il capitale umano impegnato e la migliore performance la facciamo collocandoci al 15° posto su 28 per servizi pubblici digitali disponibili, cui fa riscontro però un altro dato : se da una parte il 78% delle imprese interroga la PA in rete solo il 58% conclude un documento in rete e complessivamente le imprese preferiscono ancor il rapporto diretto con lo sportello. Di questa realtà allarmante dobbiamo essere consapevoli e non pensare di scaricare tutto sull’ignavia del dipendente pubblico come sembra essere lo sport nazionale. Al di sopra del dipendente pubblico c’è un sistema amministrativo che se vuole favorire l’uso della rete da parte degli utenti deve standardizzare le procedure, reingenierizzarle con linguaggio e modalità proprie della rete; c’è un livello di connettività che va potenziato e per il quale siamo addirittura al 27° posto su 28; c’è da far dialogare i sistemi il che indirettamente ci riporta alla questione delle centrali d’acquisto e alle relazioni con le imprese. E fuori dall’ufficio pubblico c’è un mondo segnato da un forte digital divide e da una molteplicità di aziende non strutturate per l’uso della rete, basti in tal senso verificare quanto sia percentualmente bassa la percentuale di e-commerce prodotto dalle nostre imprese.
Non posso che chiudere su due fattori che sono in vero molto all’attenzione degli osservatori internazionali interessati ad indirizzare sul nostro paese possibili investimenti imprenditoriali o di impegnare fondi finanziari in imprese italiane. Mi riferisco, va da se, ai tempi della giustizia amministrativa e della giustizia civile. Per quanto riguarda quest’ultima non si può dire che non ci sia consapevolezza e conseguentemente una azione. I dati dicono che a fine 2016 l’arretrato civile sarà inferiore ai 4.000.000 di procedimenti. Si dirà una enormità ed è vero ma nel 2009 erano 6.000.000. I tempi della giustizia civile ci dicono che oggi si arriva a sentenza di primo grado dopo 367 giorni ed anche qui c’è un progresso legato anche alla maggiore produttività dei magistrati e alla tecnologia. Infine va segnalato che opera nel nostro paese presso le corti d’appello il tribunale delle imprese che rappresenta una novità tesa proprio a rispondere alla peculiarità del contenzioso che coinvolge le imprese. Sul fronte del diritto amministrativo si conferma il fatto che spesso si tratta di ricorsi “ostruzionistici” ovvero si ricorre per mettere i bastoni fra le ruote, costringere le amministrazioni a trattare e così via. Questo dato è confermato dall’alto numero di casi che vanno in perenzione. L’atro dato è comunque quello dell’arretrato pari a 240.000 procedimenti, un vero mattone sulle ali delle amministrazioni pubbliche.
L’ultimo fattore di relazione fra amministrazione e imprese è quello decisivo dei tempi di pagamento. Negli anni acuti della crisi si era accumulata una situazione assurda: enti con i soldi in tasca che a causa dei vari patti di stabilità non potevano onorare i loro debiti con le imprese e a loro volta le imprese che in assenza di pagamenti per lavori svolti per la pubblica amministrazione non potevano onorare i loro impegni con le banche andando dritto verso il fallimento; oppure non potendo onorare i loro versamenti all’INPS pur essendo creditrici della PA si vedevano impossibilitate a partecipare ad ulteriori gare pubbliche per assenza del DURC. E’ stata una fase terribile, della quale anche io nel mio piccolo mi feci carico come componente della commissione parlamentare di vigilanza sulla CCDDPP rivolgendo all’allora presidente Franco Bassanini una pressante richiesta di mettere a fuoco una proposta di soluzione del problema che vedesse coinvolta la Cassa. Solo con il Governo Letta questa soluzione fu messa a punto e cominciò a funzionare. Ma per una serie di ragioni a me non sempre chiare dei 70 miliardi di debiti verso le imprese che si ritiene la pubblica amministrazione avesse accumulato solo una metà 38,6 ad agosto 2015 erano stati effettivamente liquidati e paradossalmente altri 6 miliardi disponibili rimanevano “inattivi”. Quello che si è fatto non è poco anzi, ha contribuito a salvare aziende e tornare a dare liquidità alle banche, ma non basta perché questo è un punto di serietà ineludibile: se tu ordini poi paghi e paghi in tempi certi. A questo proposito siamo nonostante tutto ben al di fuori dalle norme europee. La pubblica amministrazione dovrebbe pagare in 30 giorni e in vero in Italia paga mediamente oltre i 100 giorni che fanno vergogna a confronto dei 19 giorni della Germania, dei 24 giorni della Gran Bretagna, dei 32 giorni dei Paesi Bassi e anche dei 62 giorni della Francia.
Eccoci dunque alla conclusione che è anche una morale: nel rapporto fra pubblica amministrazione e impresa non occorre immaginare qualcosa di speciale, di straordinario, di roboante, basterebbe un poco di normalità, ma su questo Lucio Dalla docet.