Come definire il dibattito sulle riforme istituzionali e costituzionali? Un gran guazzabuglio; ecco io lo definirei proprio così. Quando manca una rotta chiara di tipo appunto istituzionale e costituzionale ( che idea di Repubblica si ha?) ciò che nel merito si dice è in vero legato ad altri scopi e neanche tutti nobili e così non ci si capisce nulla e quello che si capisce o si intuisce non suscita certo quella attenzione e quella partecipazione quasi solenne che temi di questo genere dovrebbero ottenere senza distinzioni di classe sociale e culturale. La maggioranza di governo ( e la maggioranza interna al PD) vuole il senato delle regioni e delle autonomie, e anche io. Non un Senato delle garanzie, ma un senato delle regioni e dei comuni. E’ legittimo pensare che si voglia consolidare un impianto che rimanda alla riforma, monca, del 2001 votata dal centro sinistra: superare il bicameralismo paritario e dare alle istituzioni regionali e locali un luogo di partecipazione alla legislazione determinante per dare coerenza al sistema e minimizzare i conflitti di competenza sollevati davanti alla Corte Costituzionale. Una esigenza oggi malamente surrogata dal sistema delle Conferenze che dovrebbero così rientrare nei ranghi di luoghi di raccordo fra gli esecutivi (nazionale, regionale e locale) senza velleità di intervento nel processo legislativo. Ma a contraddire questo buon proposito arriva il fatto che contemporaneamente si riforma, contraddizione evidente, il titolo V della seconda parte della Costituzione in palese controtendenza rispetto alla riforma del 2001 sottraendo competenze legislative alle regioni e consolidando un neo centralismo che si è via via rafforzato con i governi di centro destra a guida PDl/Lega nord (!!!) e poi con il governo Monti. E ancora archivia ogni discorso di federalismo fiscale e di autonomia fiscale manomettendo, come hanno già fatto i governi che l’hanno preceduto, quei fragili capisaldi ( meritoriamente costruiti da Visco e che si chiamavano IRAP e ICI) su cui si dovrebbe fondare l’autonomia regionale e locale e predisponendosi ad abolire una delle imposte chiave di questo sistema di fiscalità locale qual’é proprio l’imposizione sulla casa e sui terreni. Quante volte l’abbiamo detto, scritto e urlato: senza l’attuazione dell’art.119 della Costituzione non ci può essere vera autonomia, senza autonomia non ci può essere il passaggio da classi dirigenti locali “irresponsabili” a classi dirigenti “responsabili”. Qualcuno sa dire che fine ha fatto questa priorità? Come se non bastasse con il superamento delle vecchie province prodotto dalla legge Del Rio ( io preferivo l’accorpamento cui avevamo lavorato con Patroni Griffi proprio per questa ragione) e con le conseguenti leggi regionali di riordino del sistema di governo locale, una serie di competenze di pura amministrazione, in barba al primo comma dell’articolo 118 della Costituzione, stanno scivolando dalle amministrazioni locali alle Regioni e allo Stato centrale. Ma non avevamo detto che bisognava favorire la sussidiarietà, evitare che le istituzioni più lontane dai cittadini facciano cose che posso più utilmente essere fatte da istituzioni ad essi più prossime? Però in compenso si riordinano finalmente gli uffici periferici dello Stato e le Prefetture, e mentre plaudo non posso non pensare che questo doveva essere coerente conseguenza di una devoluzione verso il basso di funzioni, poteri, risorse. E invece avviene mentre sta accadendo l’esatto contrario. Sicuri che vada bene così? Allora viene il dubbio che si elimina il Senato e si fa quello delle regioni e delle autonomie non perché si ha in testa una idea coerente di assetto della Repubblica e conseguentemente della amministrazione ma solo per poter dire che i futuri senatori non percepiranno indennità e che si farà prima a decidere, in un trip che fa pensare ad una sorta di neo futurismo esaltante la velocità allora dei motori oggi dei tweet. Faccio sommessamente notare che nel nostro paese la produzione legislativa è fin troppo alta, quasi parossistica, altroché lentezza, e che il problema è la coerenza del sistema , l’ attuazione delle norme, l’organizzazione amministrativa.
E che dire di chi si oppone a queste scelte? Della destra il disegno istituzionale e costituzionale non è pervenuto ovvero si è smarrito dopo la sconfitta nel referendum del 2006. Quella riforma era sbagliata perché forzava una idea unitaria del paese ma l’indice dei temi che toccava era giusto tant’è che è lo stesso indice dei temi che poi ritroviamo nella cosiddetta Bozza Violante presa a riferimento per molte discussioni successive. Ma da allora nel centro destra è buio pesto.
Una notazione merita invece il braccio di ferro messo in atto proprio al Senato dalla minoranza interna al PD (di cui spontaneamente mi sento parte). Diciamola chiara. Per buona parte della minoranza il tema non è la modalità di elezione del Senato ma la legge elettorale. E’ il giudizio sulla legge elettorale che ha fatto diventare il dibattito sul Senato dirimente di una posizione che si batte contro un sistema che tendenzialmente involve verso l’idea di un uomo solo al comando. E se vogliamo essere ancora più espliciti e profondi la ragione della opposizione sta nell’obbiettivo di evitare che il sistema istituzionale involva verso l’idea di un uomo solo al comando e che di conseguenza si smarrisca il ruolo di un partito di sinistra che guarda al centro a vantaggio di una torsione elettoralistica del partito e di un potenziale listone elettorale fatto di indifferenza fra destra e sinistra dove gli elettori possano trovare nella stessa lista Verdini e Bersani, Cuperlo, Speranza e Alfano. Ma fare della Costituzione la ridotta di una battaglia tutta politica da l’esatta misura dell’allarme per il rischio mortale che la sinistra rischia di correre, ma nello stesso tempo non è istituzionalmente coerente e chiaro, anzi può essere rischioso. Per questo plaudo ad una possibile intesa sul nodo dell’articolo 2 della riforma in discussione in terza lettura al Senato, ma nello stesso tempo mi aspetto che la mia minoranza alzi il tiro e rilanci una battaglia autonomistica vera fatta di coerenza fra Costituzione, assetto Istituzionale, legislazione fiscale, organizzazione amministrativa. Solo così potrà parlare al mondo dei nostri amministratori locali e regionali che sono parte fondamentale della nostra classe dirigente in una idea di partito come vera comunità politica. Cosa che non potrà mai fare l’uomo solo al comando troppo preso dal proprio destino che fa corrispondere a quello del partito e del paese.
La cosa che mi da ansia, infatti, in questo scenario, è il silenzio assordante in cui sono ridotti i nostri presidenti di regione ( con rarissime, forse una eccezione) i nostri consiglieri regionali, i nostri sindaci e delle grandi città come dei piccoli comuni. Eppure è sulle loro teste che si sta cucinando qualcosa destinato a determinare le loro funzioni, il loro spazio di azione vitale. Non posso credere che sia sceso su di loro il sonno dell’opportunismo, o che si sentano tutti addosso il peso di un giudizio negativo , che i media hanno enfatizzato oltre misura, dovuto alle mutande verdi o a rimborsopoli. Li vedo piuttosto piegati dentro una pesante dimensione emergenziale che non da loro respiro per interpretare la loro funzione di battaglia politico-istituzionale come sarebbe necessario nonché vittime di quella rarefazione della funzione dei partiti che li spinge a vivere di comunicazione quotidiana piuttosto che di progettazione strategica. I nostri rappresentanti nei governi locali sono per lo più gente seria ed operosa, sollevino il capo e si facciano sentire verso un andazzo nazionale che li mette sempre dalla parte di chi deve pagare e far pagare ai cittadini, rivendichino autonomia e il diritto di essere giudicati dalla loro capacità di organizzare risorse umane e finanziarie in un quadro di certezze e soprattutto si impongano per impedire che in una logica politica fatta di improvvisazione e spot si smarrisca il senso di una coerenza di sistema di cui essi coprono la parte più esposta e critica.
Avere una idea di Stato non è cosa di cui si possa prescindere. E devo dire che sempre dall’Unità d’Italia ai governi di Giolitti, dal Fascismo alla Costituente, dai governi democristiani al 1990 una idea si è sempre prodotta, magari dentro uno scontro politico anche forte ma, appunto, dentro visioni chiare. Uno Stato può essere coerentemente centralista o coerentemente autonomista evitando gli estremi di entrambi gli assetti. Quello che non può essere sono le due cose insieme, in una sovrapposizione di modelli che produce solo duplicazioni e confusione di ruoli e di responsabilità. Dai Savoia fino ad oggi una idea centralistica dello Stato ha sempre avuto il sopravvento rintuzzando e svuotando i tentativi di correggere quello che per me, ma anche per tanti altri Giorgio Napolitano ad esempio ne ha parlato chiaramente nel suo importante discorso per il 150 anni dell’Unità d’Italia, è il vizio originario della nascita dell’Italia. Quell’idea vinse con il fascismo azzerando il ruolo delle autonomie locali, dopo una stagione di fermenti e aperture, e in parallelo azzerando il ruolo del parlamento e dei partiti. Vinse dentro al sistema di potere della Democrazia Cristiana ( che pure come partito aveva una forte impronta autonomista di eredità sturziana) e dei suoi governi, facendo andare su un binario morto la riforma che negli anni 70 del secolo scorso portò alla nascita delle regioni e alla grande stagione dei governi locali. Lo ha fatto negli anni 90 impedendo che la stagione del dopo tangentopoli evolvesse davvero verso una nuova idea di repubblica promuovendo Berlusconi e il berlusconismo. E’ stato sempre così perché questo è sempre stato funzionale alle classi borghesi, e qualche volta reazionarie, compromesse con il potere politico di turno. Quei poteri che non avendo mai conosciuto una vera cultura liberale ci hanno offerto sempre una destra che non conosce la responsabilità nazionale ma conosce la corruzione, la commistione con le alte burocrazie ministeriali e l’intreccio con poteri più o meno occulti ma di certo delinquenziali che attraversano i vari apparati dello stato e le varie istituzioni, l’evasione fiscale, l’uso corporativo della legislazione, la pressione sulla politica per ricavarne vantaggi particolari a dispetto dell’interesse generale e dei beni comuni. Questa è l’anima vera del centralismo all’italiana. Un governo di centro sinistra io mi aspetto che rompa questa cultura e voglio che la battaglia per l’Italia delle autonomie riprenda ricordando a me stesso che è proprio della sinistra innovatrice e riformista esserne protagonista da tempo immemore.