GIACOMO MATTEOTTI  E UNA NUOVA STAGIONE  PER  LE AUTONOMIE LOCALI

Grosso modo fra il 1900 e 1920 il nostro paese conobbe una stagione di grande fermento autonomistico. L’unificazione nazionale militare e centralista che aveva segnato la stagione del risorgimento già da allora cominciò ad evidenziare un vizio d’origine ( ne ha parlato in occasione del 150° anche Napolitano) che andava a cozzare con la natura profonda del paese: quella municipale e poi provinciale. Quel periodo è ricordato dagli storici anche come la “primavera dei comuni”. I temi erano in buona sintesi quelli  di oggi: la possibilità di contare su una fiscalità autonoma e certa, la possibilità di occuparsi delle questioni sociali e della scuola primaria, il potere di intervenire sulla rendita fondiaria e sui capitali immobiliari, il non dover fare da gabellieri per lo stato centrale e non doversi sobbarcare il costo di servizi statali ( ancora i comuni sostengono i costi dei tribunali). Protagonisti furono i sindaci di Milano, di Bologna fra i tanti, e poi il grande contributo di Don Sturzo, e non sempre adeguatamente ricordato quello di Giacomo Matteotti.

Da quella stagione si dipanò un lungo filo rosso di battaglie e di conquiste autonomiste, mai facili, mai scontate, sempre osteggiate da forti ritorni centralisti che massimamente  caratterizzarono il ventennio fascista, ma furono fortissimi anche nella stagione della guerra fredda. La cultura autonomista di fatto non divenne mai   cultura condivisa dei grandi partiti di massa: sia della DC che pure era il partito di Sturzo ma che ben presto divenne partito stato, sia del PCI e del PSI che pur avendo le loro migliori energie riformiste impegnate nei governi locali rimasero sempre  partiti fortemente centralisti e statalisti, per non parlare della cultura azionista e tecnocratica di altri partiti.

Ma quel filo rosso non si spezzò mai e diede luogo a stagioni esaltanti negli anni settanta, alla nascita delle regioni  e poi negli anni novanta nel pieno di una profonda crisi economica, morale e istituzionale. Gli anni novanta non furono  solo segnati dalla elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di provincia e di regione, ma anche dall’introduzione di una autonomia fiscale più forte attraverso l’ICI, IRAP ecc., le riforme Cassese e Bassanini che rafforzarono l’autonomia organizzativa delle amministrazioni locali e regionali e infine  una legittimazione istituzionale nuova che seppe andare oltre l’art.5 della Costituzione e diede luogo alla riforma del Titolo V della seconda parte della Costituzione.

E’ stato il Berlusconismo associato al Leghismo a spezzare quel filo. La cultura autonomista è stata piegata dalla demagogia leghista a slogan secessionisti, violenti, razzisti corrispondenti al nuovo clima di incertezza e di paura che la globalizzazione ha immesso in dosi massicce nel mondo produttivo e del lavoro . Nulla a che vedere con la cultura riformista, nulla a che vedere con la storia dell’autonomismo che ha sempre dato prova proprio sulla inclusione sociale di anticipare i tempie le leggi. Un ventennio buio e infruttuoso, anzi segnato ad un forte ritorno indietro, ad un centralismo di fatto contrapposto ad un federalismo parolaio, un ventennio in cui l’autonomia fiscale, organizzativa e la legittimazione istituzionale di regioni e autonomie è stata profondamente intaccata e manomessa. Ma non nascondiamoci dietro ad un dito. In questo ventennio ha pesato negativamente anche uno scarso coraggio delle stesse autonomie locali nell’imboccare la strada del cambiamento. Non era scritto da nessuna parte che dovesse intervenire lo stato ad eliminare le comunità montane collocate a livello del mare, o a ridurre il numero delle province interpretando in modo moderno il bisogno di governi di area vasta, o ad esigere rigore trasparenza nei bilanci dei gruppi consigliari regionali. Diciamolo c’è stato un ritardo proprio della cultura autonomista, un sedersi sugli allori, una mancata assunzione dell’imperativo del cambiamento, della innovazione mentre il paese impoveriva e cresceva il distacco verso le istituzioni.

Ora è possibile aprire una stagione nuova delle autonomie? Riannodare il filo spezzato dal berlusconismo, dal leghismo e dal conservatorismo è una ambizione che possiamo perseguire? La risposta come sempre è: dipende.

Alcuni  presupposti per quanto segnati da alcuni limiti evidenti ci sono: la riforma delle province, la riforma del Senato e la sua trasformazione in senato delle regioni e delle autonomie, la revisione del Titolo V della seconda parte della costituzione presi nel loro insieme sono fati rilevantissimi, una vera opportunità per mettere all’ordine del giorno il tema di un sistema istituzionale saldamente democratico, fortemente rappresentativo e nello stesso tempo snello, efficace, semplice.

 Questo sistema per essere vincente deve confermare la centralità delle autonomie, il valore della vicinanza al territorio, alle persone, alle imprese; non deve indulgere ad alcuna illusione neocentralista quasi che semplificare sia sinonimo di concentrare a Roma le decisioni. E’ la storia che ci insegna che questa è una visione fallimentare.  Ma nello stesso tempo sulle questioni strategiche su cui si giocano i destini della nazione ci deve essere una comune lotta ai localismi, la possibilità di una clausola di supremazia a disposizione dello Stato, da attivare con le dovute garanzie e che tuteli il primato di un interesse nazionale quando questo è minacciato dal localismo. Il dibattito si è molto concentrato sulla riforma del senato, ma proprio per le ragioni dette altrettanta attenzione va posta a come revisioniamo il titolo V, a come diamo corso alla riforma delle province, a come accompagniamo entrambi questi processi con una incentivazione al superamento della frammentazione municipale favorendo le unioni dei comuni, a come eliminiamo tutte quelle agenzie, enti, società che come delle superfetazioni sono cresciute a dismisura fra le regioni e il sistema locale.

Accanto a questo pacchetto istituzionale occorre rilanciare l’attenzione sugli altri due capisaldi di un sistema autenticamente autonomista: L’autonomia fiscale (art.119 della costituzione) e l’autonomia amministrativa e organizzativa degli enti. Su questo secondo tema le linee generali della riforma della pubblica amministrazione annunciata dal governo sembrano muoversi nella buona direzione, nella direzione delle migliori pratiche già sperimentate negli enti locali. Sulla dirigenza, sull’esigenza di valorizzare il merito, sul taglio di stipendi improponibili si dicono cose importanti. Bisogna saper dire con altrettanta chiarezza che il blocco del tour over sta producendo una amministrazione sempre più vecchia e arretrata e che la staffetta generazionale è una buona idea che bisogna evitare diventi un insopportabile privilegio nei confronti dei dipendenti privati. Bisogna avere la forza di trasformare la spending review nell’occasione di piani industriali che agiscano sulla organizzazione delle amministrazioni se si vuole che i risparmi siano permanenti e non si riducano a tagli lineari. Bisogna infine riprendere la stagione del federalismo fiscale, ricollegandosi al lavoro fatto dalla bicamerale allo scopo istituita nella XVI legislatura. Matteotti nel suo lavoro di amministratore ci dimostrò la centralità di questo aspetto e il contributo che per questa via gli enti locali possono dare alla giustizia sociale e all’uguaglianza.