Semplificare per Rafforzare Prendo a pretesto il titolo di un impegnativo documento della CGIL per fare alcune riflessioni sul tema della semplificazione istituzionale finalizzata al rafforzamento del ruolo delle autonomie locali.

Da un po di tempo sono e rimango persuaso: la cultura autonomista come l’abbiamo conosciuta dalla fine dell’800 agli anni novanta del ‘900 e’ morta. C’è un lungo “fil rouge”  che in forme diverse lega ininterrottamente la stagione risorgimentale con le idee di Cattaneo o del meno noto Tuveri a quella del decennio d’oro dei comuni che vede protagonisti  Sturzo, Matteotti, Caldara, Zanardi e ancora al rilancio dell’autonomismo nell’immediato dopoguerra dei Dozza e dei La Pira, alla stagione dei sindaci degli anni ’70  fino alle “Bassanini”  e alla riforma del titolo V della Costituzione nel 2001. Quel lungo filo rosso si è spezzato.  Quella esperienza concreta, che non a caso per anni fu chiamato “movimento delle autonomie”, che  ha avuto la capacità di intercettare i cambiamenti e organizzarli in servizi  ben prima che si potesse parlare davvero di Stato nazionale e che le leggi del regno e poi della repubblica arrivassero a normarli, quella  storia più che secolare ha esaurito da anni la sua spinta innovativa.

L’ha uccisa il ripiegamento nazionale del progetto di costruzione politica dell’Europa che era cresciuto parallelamente e specularmente al movimento delle autonomie locali e regionali. Una involuzione che ha visto la destra politica protagonista e la sinistra subalterna. E’sempre stata ed è l’idea di “stato/nazione” centralistica, burocratica, opprimente, pervasiva, antistorica, la nemica sia di una vera Europa politica sia del pieno esplicarsi del  ruolo delle Autonomie.

L’ha uccisa l’incapacità della cultura autonomista di diventare definitivamente  negli anni ’90  del secolo scorso cultura maggioritaria nella sinistra storica dove aveva sempre dovuto convivere in condizione minoritaria con lo statalismo e centralismo propri del PCI.

L’ha uccisa il ripiegamento localista che spinto dalla ” paura ” e dal “rancore” ha alimentato un fenomeno come quello della Lega Nord in Italia e di altri similari in Europa. E sarebbe sbagliato vedere questo ripiegamento solo nelle aree del Nord: fenomeni di chiusura dentro una vera e propria “retorica del territorio” per altro vuota di contenuti, si sono manifestati ovunque in una parallela perdita di spessore delle politiche per le persone, le famiglie, le imprese che sono sempre state il valore aggiunto di una illuminato governo del territorio.

 L’ha uccisa il berlusconismo ovvero una piegatura tutta populista, personalistica, televisiva della politica quando il governo locale e’ merito, concretezza, innovazione, sperimentazione, rapporto diretto con le persone ( c’e’ stato un periodo in cui la qualita’ degli asili nido, i piani regolatori ben fatti, le esperienze di recupero del disagio giovanile o l’assistenza domiciliare agli anziani, la cultura, facevano notizia, erano oggetto di riunioni di organismi dirigenti dei partiti, occasione di contaminazione fra politica e competenze).

L’ha uccisa la potenza mediatica delle campagne di denigrazione messe in piedi dai poteri economici e finanziari più forti con una demagogia montante che non ha risparmiato neppure i tecnici  chiamati al governo del paese, per la quale è diventata oggetto di scandalo il compenso di un consigliere di circoscrizione e non le pensioni d’oro a 3000 euro al giorno.

Ma l’ha uccisa anche la passività delle classi dirigenti locali, il venir meno di una propensione al cambiamento continuo e profondo, la loro difficoltà a trovare fattori unificanti tali da farne una nuova classe dirigente nazionale ed europea. Conservatorismo misto all’egoismo di categoria: comuni e province contro comunità montane, regioni e comuni contro province, regioni contro tutti, grandi città contro piccoli comuni. Insomma il cambiamento atteso e realisticamente possibile e necessario non si è fatto strada come un nuovo progetto di sistema tale da rendere tutto più connesso alla realtà, tutto più economico ed efficace e fra le crepe provocate da questo ritardo e da questa passività si è infilata la esiziale stagione del federalismo predicato e del iper centralismo praticato.

Oggi, però, ci sono interessanti segnali di ripresa di dinamismo. Non un vero e proprio movimento innovativo che sale dalle autonomie e diventa nazionale; forse solo segnali sparsi frutto di necessità, ma tant’è: si torna a progettare il cambiamento e, dandogli il supporto necessario, può diventare davvero una nuova stagione delle autonomie.

 Mi riferisco al proliferare di forme di Unioni dei Comuni  ad  esperienze o proposte di fusione fra più comuni. E’ un fenomeno importante che merita una riflessione e un incoraggiamento anche per accompagnare in modo intelligente e non burocratico il superamento delle province come le abbiamo conosciute negli ultimi 150 anni.

 Per farlo bisogna senza indugio affrontare le domande scomode che ogni cambiamento vero impone e dare loro risposte credibili.

 

Democrazia. Comincio da quella più importante per me: dietro alle unioni e alle fusioni dei comuni si nasconde un rischio di restringimento e impoverimento della democrazia? Lo dico in un altro modo: non è forse che con le unioni e le fusioni ci acconciamo ad una pericolosa cultura dominante che vede nella diminuzione degli spazi di partecipazione e di democrazia la soluzione della inefficienza delle istituzioni e della politica?

Il rischio c’è. E’ inutile negarlo, dietro a certe letture semplificate come quelle che individuano i comuni nei sindaci e ignorano i consigli, o invocano il passaggio con un tratto di penna da 8100 comuni a 3000, c’è tanta ignoranza e tanta stupidità ma soprattutto c’è un’idea della democrazia bacata dal fatto che questa funzioni meglio quanto più si restringano e riducano i processi di condivisione e partecipazione.

Ma le unioni e le fusioni dei comuni possono essere una risposta a queste teorie pericolose affrontando senza conservatorismi una crisi della democrazia locale che alla luce dei fatti esiste già e non sembra arrestarsi.

Quando nel 1993 fu introdotta l’elezione diretta dei sindaci e una diversa articolazione dei poteri fra sindaco, giunta, consiglio essa fu una risposta efficace ad una caduta verticale della fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nel sistema democratico conseguente ad una profonda crisi morale, economica e istituzionale. Ricordo benissimo quel senso di liberazione che tanti cittadini dicevano di provare nel poter pensare alla persona che stavano eleggendo e non solo e non tanto al partito di appartenenza.

Oggi quando all’elezione diretta di un sindaco e di un  consiglio comunale partecipa meno del 50% degli aventi diritto vuol dire che quella scelta per altro da confermare senza dubbio alcuno non è stata sufficiente.

Quando le imprese chiudono quotidianamente, si perde il lavoro, non si arriva alla fine del mese con  il salario e con la pensione, si raggiungono percentuali del 40% di disoccupazione giovanile, inesorabilmente  si fa strada il senso dell’inutilità del comune o della sua inadeguatezza. E contrariamente a quanto accadde nel passato i vincoli centralisti e europei che legano le mani degli amministratori, spesso dipendenti da organi fuori dal sistema democratico e che rispondono solo al potere finanziario globale, impediscono anche di inventarsi soluzioni originali. Oggi sarebbe impossibile pagare degli operai che abbiano realizzato un opera pubblica con il sistema dello sciopero alla rovescia.

Smuovere l’immobilismo, non piegarsi in uno sforzo encomiabile di sola difesa, provare a progettare in grande, ricercare nuovi punti di equilibrio per l’organizzazione efficace ed economica dei servizi, delle strutture amministrative, della pianificazione può diventare una reazione capace di riaccendere l’attenzione dei cittadini, del mondo imprenditoriale, delle competenze, tale da ravvivare il senso di utilità dell’istituzione più vicina ai cittadini e quindi della democrazia.

Comunità locale. Chi non capisce o guarda con sufficienza alla comunità locale, non può capire l’Italia perché non ne conosce la storia ed è destinato a fare danni. Quando i costituenti approvarono l’art.5 della Costituzione con quel “ la repubblica riconosce e promuove le autonomie locali…” ammisero nel modo più chiaro la preesistenza delle autonomie come forma di autogoverno rispetto alla Repubblica. Poi come avvenne per tanta parte della Costituzione i legislatori e i Governi si premurarono di tradire quel principio costituzionale, ma questa è un’altra storia. Oggi più che mai nel momento in cui la crisi morde, rompe legami, frantuma relazioni, il rischio che l’uomo smarrisca il suo essere sociale in una solitudine che può farsi violenza è alto. La comunità locale in questo scenario è un valore da rinnovare e non da disperdere. Ma c’è un altro tipo di soggetto pericoloso: quello che parla della comunità locale come fosse ciò che ha in testa e non quella che essa oggi effettivamente è. Sarebbe molto sbagliato non tenere conto di cosa abbia contribuito a cambiare la comunità locale e quanto radicalmente essa sia cambiata. Il fenomeno urbanistico della città continua, la crisi della fabbrica come polo attorno al quale si è organizzata la comunità locale, i poli commerciali extra urbani, le complesse e spesso infruttifere politiche di integrazione sociale di comunità diverse, straniere e non, richiamate dalle fabbriche ,dai distretti produttivi o da servizi nuovi connessi ai mutamenti demografici e sociali. Tutto ciò più che parlare di tutela della comunità locale impone alle classi dirigenti la riflessione sulle politiche tese a ricreare la comunità locale.

Ecco allora che la fusione di più comuni o la creazione di unioni fra comuni  può essere l’occasione per farlo ma inderogabilmente deve porsi la dimensione culturale e sociale del progetto come fattore primario del successo del progetto stesso.

Dignità della persona. Perché organizzare la società attorno a istituzioni democratiche locali? A questa domanda non si può più sfuggire. Se la globalizzazione tende ad una redistribuzione del mercato del lavoro su scala planetaria; se il potere reale si stabilizza in soggetti addirittura senza patria, senza terra, senza lingua, cultura; se le nuove tecnologie sembrano consentire la soddisfazione dei nostri bisogni relazionali attraverso la rete e  nei social network, perché noi dovremmo investire sulle autonomie locali? La risposta la troviamo nella nostra Costituzione e in particolare nella dignità della persona che è il fattore unificante della tessitura della nostra legge fondamentale.

Allora la risposta è: organizziamo la società attorno a istituzioni democratiche locali perché lì e non altrove è più efficace organizzare i servizi che possono tutelare la dignità della persona.

Perché lì più che altrove si possono organizzare i servizi capaci di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale,che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” art 3 secondo comma della Costituzione.

Perché senza i servizi organizzati dalle istituzioni locali l’art. 9 della Costituzione sarebbe ben più inattuato di quanto effettivamente non sia.

Perché lì più che altrove si può dare attuazione all’art. 32 sulla tutela della salute; dare sostanza con i servizi all’infanzia e alla genitorialità all’art. 37; si può indirizzare l’iniziativa privata all’utilità sociale come prevede l’art. 41 e valorizzare il senso profondo della cooperazione come prevede l’art. 45.

Chi perde di vista il ruolo dei servizi locali perde di vista la dignità della persona e con essa la nostra Costituzione. Questo tema non può più essere sottovalutato: viviamo nel pieno di un’ emergenza che ha al centro la perdita di senso della dignità umana. A questo dobbiamo tutto ricondurre.

Ma proprio per questo attraverso le fusioni dei comuni e le unioni fra comuni dobbiamo rispondere con una profonda riorganizzazione dei servizi, una loro nuova progettazione sulla base di criteri che superino l’autoreferenzialità, la retorica del piccolo e bello, del padroni a casa propria, rimettendo al centro i destinatari dei servizi, i loro nuovi bisogni sia essi persone, famiglie, imprese o il territorio largamente inteso.

Lotta di classe. Scomodando un concetto ormai desueto e prendendo a prestito il titolo del bel libro di Luciano Gallino “la lotta di classe dopo la lotta di classe” mi chiedo se su questo terreno si stia giocando anche un pezzo significativo della più ampia  lotta di classe che da anni i grandi poteri economici stanno portando ai ceti più poveri di cui lui parla nel libro.

Certamente sì! I poteri “ultra democratici”, irresponsabili verso i cittadini e padroni assoluti della finanza mondiale hanno evidentemente come obiettivo (per altro ad oggi ampiamente conseguito) di rendere ininfluente il potere di vincolo che può derivare dal pensiero della maggioranza di un popolo, svuotando gli istituti democratici e manipolando l’opinione pubblica. Una mutazione vera e propria della democrazia senza che essa venga del tutto formalmente negata. Perseguono l’obbiettivo con una sistematica deformazione della realtà attraverso l’informazione che condizionano ampiamente: un esempio per tutti l’asserita insostenibilità del sistema di welfare europeo, le cifre false che si leggono sulla spesa sanitaria, sul costo della pubblica amministrazione e lo fanno con una capacità tale che ci troviamo spesso lo stesso operaio che rivendica più tutela sanitaria e nello stesso diventa megafono di questi poteri nel chiedere tagli alla spesa pubblica o diminuzione dei dipendenti pubblici senza neppure accorgersi della contraddizione in cui è stato portato e che per  lui la sanità privata sarà inaccessibile o più costosa.

Ma ancora di più creano le condizioni perché si  restringano le decisioni a circuiti pseudo tecnici e molto centralizzati (lo strapotere della  ragioneria generale dello stato in Italia è emblematico)  che vivono con evidente fastidio il confronto democratico con un sistema autorevole ed efficace di autonomie comunali e  regionali.

Più le decisioni prescindono dal popolo e dal sistema democratico che lo rappresenta più i poteri finanziari possono determinare le priorità delle scelte dei governi.

Il loro scopo nemmeno tanto recondito è lo svuotamento del ruolo della politica e quindi non solo non disdegnano ma anzi fomentano le campagne di antipolitica che trovano ampio spazio nei loro mezzi di comunicazione. Come funzionali al loro disegno sono le chiusure localistiche, quelle che mettono un territorio contro l’altro, che predicano la secessione basata su un presunto merito.

Ecco allora che tornare ad investire sulle autonomie locali è prendere posizione dentro a questa lotta di classe dei ricchi contro i poveri, degli antidemocratici contro i democratici, ma per farlo bisogna che i sistemi locali si pongano obbiettivi di cambiamento tali da riattivare  l’attenzione e la fiducia e la partecipazione del loro potere più forte: il popolo.

Semplificazione. Sono convinto che quello che il popolo chiede è un sistema di poteri locali forte e semplice. Per questo la razionalizzazione dei livelli di governo locale e ancora di più la “demolizione” di tutte quelle superfetazioni che in assenza di una coraggiosa autoriforma si sono prodotte è la strada maestra da percorrere.

Il mio cruccio più grande è che ci si arriva  nel modo peggiore, cioè quando tutto questo assume più il sapore di una forzata riduzione dei costi piuttosto che di una lungimirante riorganizzazione dei servizi.

L’autoreferenzialità dei singoli, la perdita di un potere forte d’indirizzo dei partiti sempre più succubi degli eletti, la difesa di un piccolo potere magari ammantata di orgoglio storico per le radici, è in questo contesto che sono maturate situazioni di intollerabile spreco del denaro pubblico assieme al massimo della inefficienza del sistema.

Nessuna legge avrebbe impedito al sistema delle autonomie di produrre i cambiamenti necessari senza l’imposizione della legge e invece le unioni fra comuni per anni si sono fatte solo per incassare gli incentivi messi a disposizione dalle regioni, le fusioni sono sempre state evitate come a peste e non parliamo del possibile accorpamento fra province.

Ma come è potuto accadere che si creasse un tale ritardo fra la domanda di razionalizzazione dell’opinione pubblica e le classi dirigenti?

Ho già accennato al venir meno di una capacità di elaborazione autonoma dei partiti che non sono mai stati in passato un limite al pieno esplicarsi del buon governo locale. La personalizzazione della politica, aggravata a mio parere dal sistema di selezione dei candidati attraverso le primarie, mette sempre meno in condizione gli amministratori di intraprendere percorsi complessi e difficili di cambiamento e li porta a chiudersi dentro ad una dimensione difensiva e a scaricare su altri le responsabilità in un tentativo auto assolutorio che alla fine mostra tutti i suoi limiti.

Dire, come si fa, che il ritardo del processo riformatore e lo spreco di denaro pubblico sommato all’inefficienza abita soprattutto nelle strutture dello Stato centrale è certamente documentabile. Ma proprio la lentezza nel produrre cambiamenti da parte dello Stato centrale avrebbe dovuto motivare gli amministratori locali e le loro associazioni rappresentative a dimostrare che un’altra Italia è possibile, che le autonomie sono in grado di produrre quel cambiamento tale che le mette in condizione di rivendicare nuovo potere e nuove responsabilità.

E’ del tutto evidente che il numero dei parlamentari e il costo economico e di efficienza del sistema bicamerale perfetto deve essere denunciato fino a quando non sarà finalmente riformato. E’ del tutto evidente che la riorganizzazione degli uffici periferici dello Stato è una riforma che può generare effetti di sistema molto più forti dell’abolizione delle province. Ma un tempo proprio dentro la logica di un “movimento delle autonomie” che non dimenticava mai la propria responsabilità istituzionale ma neppure di essere una realtà in “lotta” con lo Stato centrale alla critica e alla rivendicazione si sarebbe aggiunta la produzione di fatti nuovi rilevanti tali da spingere l’intero sistema a cambiare.

L’Autoriforma. Dare fiducia ai segnali di cambiamento che stanno emergendo dal mondo delle autonomie in particolare con i processi di Unione fra comuni e di Fusione comporta offrire i punti di una possibile piattaforma “di lotta e di governo” tesa a produrre una grande autoriforma.

L’abolizione delle province va adoperata come una leva per produrre  un nuovo asseto del governo locale e regionale tale da respingere le impostazioni demagogiche e organizzare un sistema meno costoso e che funzioni.

1)      Bisogna evitare che l’abolizione delle province produca un ulteriore accentramento di funzioni in capo alle regioni e in particolare è inaccettabile che le regioni detengano funzioni amministrative, il loro ruolo va rigorosamente ricondotto alla competenza legislativa e di alta programmazione. A questo fine è utile aprire il cantiere del superamento delle regioni più piccole accorpandole in realtà che abbiano una dimensione più adatta a svolgere quel ruolo di interlocuzione con l’Europa che le politiche dell’Unione dal “libro bianco” di  Jacques Delors  richiedono. Nello stesso tempo va affrontata la questione delle regioni a statuto speciale per verificare in cosa consista oggi questa loro specialità.

2)      Bisogna evitare che la cancellazione delle province produca anche la cancellazione dell’idea di “governo di area vasta” che rappresenta invece una frontiera sempre più moderna da perseguire sia in funzione di un buon governo dei servizi a rete, sia di una buona pianificazione territoriale e infrastrutturale. A questo fine una proposta che si limiti a togliere le Province dalla Costituzione e rinunci ad accorparle in una vera dimensione di area vasta è sbagliata. Questa competenza va attribuita alle Regioni e ai Consigli regionali delle Autonomie Locali. Del resto se non si farà questa necessaria operazione sarà più difficile combattere per un superamento della proliferazione degli uffici territoriali dei diversi ministeri. Questo comporta che alle aree vaste vengano mantenute funzioni fondamentali e tributi propri.

3)      Far decollare le Città Metropolitane. C’è un consenso ampio sul contributo che un diverso assetto istituzionale delle aree metropolitane può fornire alla competitività del sistema paese. Questo comporta necessariamente che vi sia un sindaco metropolitano eletto democraticamente dai cittadini e un consiglio altrettanto espressione di un voto democratico diretto, nonché una articolazione in municipi dotati di veri poteri amministrativi.

Unioni e Fusioni. Ma l’autoriforma che può maggiormente incidere nella natura profonda del paese è una vera proliferazione delle esperienze di Unione fra Comuni e di Fusione di comuni. Prima di tutto è necessaria una avvertenza. Le fusioni notoriamente tendono a mettere assieme realtà molto piccole e se non si sta attenti potrebbero essere interpretate in modo alternativo alle Unioni. Si tratta di un pericolo da scongiurare. Lu Fusioni vanno fatte e incentivate ma occorre essere consapevoli che il vero salto di qualità nella riorganizzazione dei servizi lo si fa con le Unioni. Voglio dire che se si procedesse a fondere i quasi 2000 comuni sotto i mille abitanti in 200 avremmo ottenuto un bel risultato statistico, ne scriverebbero i giornali ma in termini di riorganizzazione dei servizi non avremmo ottenuto gran che poiché una massa critica di 4000 abitanti è assolutamente insufficiente per dare luogo a servizi economici, efficienti ed efficaci.

Per questo nella piattaforma di autoriforma andrebbe individuato un parametro il più scientifico possibile dentro il quale sia possibile che un servizio è degno di tale nome poiché risponde davvero in modo economico ed efficace ai cittadini. L’obbligatorietà delle unioni fino a 30000 abitanti è a mio parere la soglia minima. Lo testimoniano le Unioni in essere che funzionano davvero e della cui esperienza poco si sa e poco si discute.

 

La democrazia è la vera risorsa. Quando i cittadini sono messi in condizione di partecipare criticamente alla vita della loro comunità non c’è problema ce non possa essere affrontato. Quando i cittadini non sono messi in condizione di partecipare e non maturano la giusta consapevolezza dei problemi anche la localizzazione di un cassonetto diventa un problema insormontabile.

Questa consapevolezza che mi deriva da anni di esperienza mi porta a dire che sia nel governo di area vasta che nelle unioni il punto di una vita democratica ricca è tema da tenere sempre in primo piano. L’elezione indiretta di questi livelli di governo non può in nessun caso vedere annullate le minoranze e rappresentanze consigliari ricche. L’uomo solo al comando non è un sistema dannoso solo a livello di stato nazionale ma inesorabilmente anche nelle comunità locali.