…sic ego nec sine te nec tecum vivere possum…

Questo bellissimo verso dagli Amores di Ovidio è stato il secolare filo di tante vite vissute, di tanti romanzi, di tanti films, e anche di tante sedute psicoanalitiche. E’ la condizione in cui si trova la sinistra italiana davanti al suo problema più grande: questa Europa ci uccide, senza il disegno europeo siamo già morti.

Ci uccide perché è una Europa di nazionalismi, primo fra tutti il nazionalismo tedesco fatto di surplus economico e di progressivo ampliamento dello “spazio vitale” per le sue industrie, ben oltre il Benelux verso i Balcani, i paesi ex socialisti troppo frettolosamente acquisiti alla UE, nonché in modo significativo il Nord d’Italia. Poi il nazionalismo francese con le sue aspirazioni neo coloniali e infine il nazionalismo dei paesi “prenditori” dell’Est con evidenti manifestazioni neo fasciste in Polonia e Ungheria.

In questo festival degli egoismi nazionali la solidarietà minima, che ci si può aspettare da chi condivide a parole un progetto politico oltre che monetario , mi verrebbe da dire da chi condivide un progetto di civiltà pensando alla democrazia parlamentare, alle libertà fondamentali, al welfare state, al sistema educativo, è stata azzerata.

Ciò che è stato fatto alla Grecia fa ancora rabbrividire e rientra nella logica non proprio liberale di “ammazzarne uno per educarne cento”.

Quindi non può che prevalere l’imitazione: tu segui una linea di egoismo nazionalista, quindi anche io faccio altrettanto, in una spirale di cui il fondo francamente non si vede ancora oppure preferiamo non vedere.

E’ vero come dice Fornaro, saggio capogruppo di LeU alla Camera dei Deputati, che se in Italia abbiamo una evasione fiscale di oltre 120 miliardi di euro, se abbiamo tre regioni controllate dalla criminalità organizzata e altri non trascurabili difetti non possiamo certo prendercela con l’Europa.

Ma questa Europa con le sue regole iperliberiste, i suoi parametri e i sui meccanismi decisionali ci toglie tutta la flessibilità necessaria per gestire quelle nostre croniche difficoltà e se soltanto avessimo un governo che volesse davvero affrontare di petto quelle questioni non potrebbe perché avrebbe bisogno di fare investimenti, di assumere energie fresche nella pubblica amministrazione, modernizzare gli strumenti di gestione e di controllo, costruire infrastrutture materiali e immateriali. Insomma ciò che serve per migliorare anche in moralità diffusa non è a costo zero.

Con questa Europa tutto può solo degenerare e infatti degenera.

La questione dei migranti in questo scenario non è altro che la mitica goccia che fa traboccare il vaso, lo strumento a cui attaccarsi per scatenare dispute politiche distruttive ma capaci di penetrare nel profondo dell’animo popolare. Se vi piace è l’omicidio dell’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo oppure l’assassinio di Ernst Eduard Von Roth nel 1938 che precedette la “notte dei cristalli”.

Di conseguenza anche da noi, che oggettivamente abbiamo subito un fenomeno migratorio epocale, l’illusione nazionalista cresce e avanza. E’ così che hanno funzionato i nazionalismi in passato, è così che funzionano tutt’ora: fenomeni che prima di diventare istituzionali crescono silenti nella testa delle persone, si impossessano del pensiero e della azione delle categorie economiche che si sentono minacciate dai cambiamenti e quando appaiono hanno già un consenso addirittura più largo di quello che si palesa.

Noi siamo vittima dei nazionalismi e la nostra salvezza non sarà di certo un nazionalismo nostrano anche se questa Europa è lì che ci spinge inesorabilmente.

Nello stesso tempo se realisticamente prendessimo atto che l’Europa che avevamo cercato non c’è, che il sogno europeo è svanito, che la gestione dell’Euro ha delle controindicazioni non da poco viste le diverse strutture economiche dei paesi che lo hanno adottato come moneta,   se davvero abbandonassimo il sogno europeo ( meglio euro-mediterraneo) saremmo già morti.

Infatti contrariamente a quanto anche autorevoli compagni e compagne della sinistra scrivono e dicono, non siamo di fronte ad un ripiegamento della globalizzazione. Tutt’altro, siamo di fronte ad una fase nuova della globalizzazione, meno romantica, più spietata ma assolutamente coerente con il processo iperliberista inaugurato oltre trent’anni fa.

C’è una immagine bellissima di un film: tutti si allineano una mattina in una vasta prateria, chi con un cavallo, chi con un calesse, chi con un carro, chi a piedi. Tutti aspettano che suoni la campana per partire in una folle corsa alla ricerca del pezzo di terra migliore che sarà poi assegnato dalla autorità. Questa è per me l’immagine della globalizzazione romantica del dopo 1989. Ora tutto sta cambiando, tutto è già cambiato.

La tendenza naturale di un capitalismo fatto di grandi corporation globali prive di ogni controllo politico e capaci con la loro potenza economica di guidare la mano dei pochi stati che potrebbero condizionarle non ripiegheranno mai verso economie nazionali, non tornerà mai l’autarchia dei mercati interni, di produzioni fatte, commercializzate e acquistate nello stesso paese. La Scavolini cucine solo pochi anni fa aveva un export del 20% e l’80% era mercato interno; ora per vivere ha dovuto tendere verso l’inversione di quelle percentuali e non tornerà mai indietro. Sarebbe come se Colombo tornasse a fare il viaggio all’incontrario pensando che così tutti ci comporteremmo come se la scoperta dell’America non fosse mai avvenuta. Vi sembra realistico? Quindi la globalizzazione c’è e va avanti accelerando pericolosamente.

Siamo nel pieno di una lotta spietata e pericolosissima per l’egemonia nel mercato globale, per la conquista di posizioni monopolistiche…della serie ne rimarrà uno solo.

E gli Stati, proprio quelli che dicono “american first” o cose similari, sempre più in mano a potenti oligarchie e con una democrazia rappresentativa sempre più squalificata e in affanno, stanno diventando un mero strumento di questa lotta all’ultimo sangue in mano alle grandi multinazionali. Si guardi il nesso fortissimo che tiene insieme l’aumento esorbitante della spesa per armamenti, la battaglia per i dazi commerciali e la difesa strenua delle sue imprese multinazionali . Sono le dita dello stesso pugno che Trump usa per affermare nel mondo le sue eccellenze imprenditoriali. Tutto tende ad affermare il primato delle imprese globali americane, a sconfiggere la concorrenza di altri Stati che, se hanno il fisico, fanno altrettanto, e non tende assolutamente a risolvere il problema degli operai del Michigan almeno non prioritariamente nonostante che loro poveretti lo pensino in tutta buona fede.

E’ il complesso di queste azioni che fa delle nazioni non il luogo sicuro, che furono un tempo, dove tutelare diritti e garantire opportunità ma uno strumento micidiale nella guerra per il controllo economico globale. E tutto ciò che in questo contesto si frappone è un nemico: Stati, ma anche politiche fiscali redistributive, diritti universali, ambiente.

Non voglio pensare cosa ci può essere in fondo a questo tunnel, senza dubbio la guerra, probabilmente uno stato pressoché continuo di guerra per pezzi, ricchi sempre più ricchi e ampliamento della fascia di poveri in lotta fra loro.

Ecco perché, mai come ora se la sinistra vuole trovare la sua missione e frapporsi a questo andamento delle cose, riportare al centro l’essere umano, il cittadino, non può in alcun modo abbandonare la sua visione mondiale e il sogno euro-mediterraneo. Semmai deve assumere molto di più questo spazio politico come il suo orizzonte programmatico e organizzativo. Un grande partito della sinistra europeo e mediterraneo. Niente di meno se vogliamo stare dentro a questo fenomeno e non esserne semplicemente travolti.

Per farlo dobbiamo affrontare e risolvere due nodi per nulla semplici.

Il primo è stato più volte ripreso da D’Attorre in alcuni suoi interventi. Come si fa ad essere europei se l’Europa finisce per sottrarci sovranità e protezione? Può la sinistra abdicare all’idea che il popolo sia sovrano ? Può rinunciare la sinistra alla lotta per dare protezione agli uomini nelle loro aspettative e nei loro diritti? Evidentemente no e una sinistra che accettasse questo semplicemente sarebbe inutile quindi sparirebbe.

Il secondo non è meno complicato ed è identitario della sinistra. Diciamocelo una volta per tutte, la sinistra è storicamente connessa all’idea di stato-nazione e tutte le volte che si è trovata nella sua storia drammatica a scegliere fra la nazione e l’interesse internazionale di classe ha scelto la nazione. Accadde così alla socialdemocrazia tedesca di fronte allo scoppiare della prima guerra mondiale, specularmente ai socialisti italiani nello stesso frangente, ai bolscevichi dopo il 1917 e se vogliamo anche la forza che venne ai comunisti nella lotta antifascista e partigiana fu legata all’idea di una guerra di liberazione nazionale e patriottica. Per non dire del riferimento imprescindibile che lo stato-nazione ha avuto per tutte le conquiste della sinistra in materia di diritti sociali e del lavoro dopo la seconda guerra mondiale in questa parte d’Europa.

Sinistra uguale stato, uguale nazione. Questa equazione che è stata la nostra forza, la nostra credibilità, oggi è la nostra debolezza è la fonte della nostra mancanza di credibilità.

Insomma quando si parla di stato -nazione e di sovranità popolare la sinistra è più che sensibile e se come è accaduto qualcuno si appropria di questi concetti riesce a penetrare nel popolo di riferimento della sinistra con una certa facilità.

Violante in un suo articolo recente ha parlato di ribaltamento dei ruoli fra destra e sinistra nonché del relativo insediamento sociale.

La ragione di questa difficoltà è semplice i valori della sinistra, gli interessi che vuole tutelare non possono più essere affidati alla dimensione stato-nazione. Attardarsi su questo toglie forza alla sinistra, la estranea dalla realtà.

Del resto quando noi parliamo di Stato al cittadino comune non viene in mente l’interesse pubblico, la tutela dei più deboli. Vengono in mente poteri forti, burocrati inamovibili e buoni per ogni stagione che passano da un ruolo all’altro a prescindere da ogni valutazione sul lavoro che hanno svolto e dai risultati che hanno raggiunto, procedure soffocanti, fisco diseguale, privilegi. Si può dargli del tutto torto?

Se parliamo di grandi imprese pubbliche al cittadino viene forse in mente attenzione al consumatore, trasparenza, accessibilità? Ma quando mai!

Forse solo la scuola statale ancora si salva nell’immaginario collettivo per il resto il divorzio fra cittadini e stato è totale.

Hic Rhodus hic salta. Lo stato nazione come luogo in cui garantire diritti e opportunità è morto. Vogliamo rimetterlo a cavallo come fosse El Cid, tanto per non demoralizzare le truppe nella guerra contro la destra? A me sembra inutile. In un frangente di esasperato nazionalismo è un terreno su cui la destra vince facile perché alla destra basta agitare il problema e ricordare le responsabilità della sinistra. Allora anche un messaggio devastante per ogni idea di giustizia sociale come la flat tax diventa popolare.

La sinistra ha di fronte a se l’arduo compito ideologico di superare la dimensione stato-nazione e collocare gli irrinunciabili principi di sovranità democratica popolare, di tutela dei diritti sociali e del lavoro e la garanzia di un sistema che favorisca l’emancipazione umana in una dimensione del tutto nuova. Lo potrà fare con gradualità e responsabilità ma avendo chiaro l’orizzonte cui tendere senza più infingimenti. Si è detto spesso anche commentando i recenti risultati elettorali: ci aspetta una attraversata del deserto. Bene, non mi fa paura. Ma dobbiamo saper indicare una meta, un via d’uscita, una idea guida.

A me sembra che se il nemico è il nazionalismo e la dimensione obsoleta è lo stato-nazione, allora la risposta corretta per i valori della sinistra è il federalismo. Il federalismo per fondare una nuova Europa dove si esplichi pienamente la sovranità popolare; il federalismo in Italia per riformare questo Stato da cui abbiamo divorziato. Perché ciò che deve essere pubblico non necessariamente deve essere statale, perché i fenomeni che i cittadini si trovano a vivere nel quartiere di una grande città, in un piccolo comune, lungo la dorsale degli Appennini o sulle Alpi meritano una prossimità del potere politico che lo Stato non è in grado di assicurare e soprattutto meritano un lavoro di ricostruzione della comunità umana che non si fa per decreto o per legge.

La sinistra è messa così male in Europa che non può giocare di rimessa. Deve assumere definitivamente e elaborare ideologicamente la realtà che i grandi fenomeni globali hanno creato e sempre più consolideranno: fenomeni sovranazionali sempre più stringenti e ricadute sempre più forti in una dimensione locale/territoriale.

Se l’ideologia che ha dato forza per un secolo alla sinistra è legata alla funzione dello Stato come luogo della sovranità democratica, come regolatore del mercato, come strumento di redistribuzione del reddito, come garante dei diritti fondamentali civili sociali e del lavoro, non si tratta di cambiare i valori come purtroppo abbiamo fatto palesemente negli ultimi 20 anni ma cambiare lo strumento ovvero la struttura istituzionale di riferimento chiamata a fare queste cose.

Sono gli Stati Uniti d’Europa l’orizzonte cui tendere per regolamentare il mercato e tutelare i diritti e sono le comunità prossime ai cittadini che oggi vengono sconquassate che vanno ricostruite e arricchite di poteri e funzioni .

Se invece di citarlo retoricamente lo leggessimo davvero con gli occhi di oggi il Manifesto di Ventotene, l’orizzonte di una Europa politica e federale ( gli Stati Uniti d’Europa), l’idea federalista in generale, ci offrirebbe una notevole mole di spunti e possibili soluzioni.