Non pensavo di dovermi esprimere sul Referendum relativo alla riforma della Costituzione. Chi mi conosce sa che,  come dirigente di partito e di associazioni mi occupo da anni   di questi temi  e con una documentata coerenza  sono stato sempre e sono tutt’ora  favorevole a che lo sforzo di adeguamento  della Costituzione fortemente avviato con la riforma del Titolo V del 2001 continuasse fino a completarsi.

L’obiettivo? Una Repubblica saldamente  parlamentare, una Repubblica che assuma il progetto politico Europa come un suo destino ineluttabile,  una Repubblica che allarghi gli spazi di democrazia,  di responsabilità e di sussidiarietà, una Repubblica  che valorizzi davvero le  regioni e le autonomie superando un vizio che ci portiamo fin dall’origine  del nostro stato unitario: l’eccesso di centralismo politico e burocratico,  non corrispondente ad un paese che deve da un lato investire sul ruolo sovranazionale di una Europa politicamente  forte,  e dall’altro  investire su una diffusione vero il basso della responsabilità di governo, alla ricerca di un nuovo civismo e di una matura cultura della cittadinanza che è il nostro vero tallone d’Achille. Le autonomie storicamente hanno un ruolo fondamentale  che precede la nascita dello stato unitario e della Repubblica e averle ridotte per troppo tempo a ruolo di puro terminale di spesa, a passacarte di decisioni prese dall’alto, ha prodotto classi dirigenti deboli, deresponsabilizzate,con effetti tutt’altro che buoni.

Più Europa, più autonomia, più responsabilità condivisa può significare uno Stato più snello ma più forte. Al contrario l’esperienza empirica di accentramento romano si è dimostrato del tutto fallimentare, lo dice il nostro debito pubblico, lo dice la nostra burocrazia, lo dice la distanza sempre più marcata fra sud e nord, lo dice il livello davvero inadeguato di responsabilità civica che il nostro paese dimostra di possedere.

Sono un autonomista convinto come tale sostenitore del  superamento del “bicameralismo paritario” a vantaggio di un Senato delle Regioni e delle Autonomie. Il tema è che un sistema autonomistico ha bisogno di una sede legislativa parlamentare dove si concretizzi il raccordo fra la legislazione statale e la legislazione regionale, unico vero strumento di sintesi capace di prevenire contenziosi. Del resto l’equiordinazione prevista all’art.114 della Costituzione fra comuni, città metropolitane, stato non elimina di certo il fatto che va salvaguardata e perseguita  l’unità nazionale  ma non può nemmeno ridursi al fatto che Roma decide e Ancona esegue.

Per questo ho guardato con fiducia al lavoro che si è svolto in Parlamento e mi secca, non so dire quanto, dover constatare che invece di poter dire Sì, come pensavo fosse naturale, mi tocca fare i conti  con un’altra occasione persa ed esprimere con  il mio voto al Referendum  un chiaro, netto e sereno NO. Un  NO che sarà tale anche in presenza di una revisione della legge elettorale “Italicum” la cui riforma comunque sarebbe benvenuta perché necessaria e urgente tanto che  consiglierei di non aspettare il pronunciamento della Corte Costituzionale per mettere in campo una risoluta azione parlamentare.

Le opzioni credo di averle valutate coscienziosamente e in questo sono stato aiutato dal dibattito che già si è svolto fra gli esperti e fra le forze politiche. Un dibattito che se evita di essere personalistico e settario risulta molto utile per poter esprimere un voto coscienzioso.

Ho preso in considerazione il fatto che una riforma pur non essendo bellissima ( lo dicono anche i sostenitori del Sì) è meglio che niente visto che se ne parla da tanto. E mi sono risposto che sì, sarebbe  anche vero sempre che  la riforma anche in modo parziale andasse nella direzione da me auspicata, ma se da una analisi attenta viene fuori che va in senso opposto? Non posso avvallare una riforma tanto per farla dicendo che poi ci rimetteremo le mani, non è un approccio serio.

Parliamo della Costituzione perbacco! E già mi mangio le mani per il fatto che  in quell’anno sciagurato in cui, invece di andare al voto come sarebbe stato naturale, ci fu imposto il governo Monti  fra le altre brutture che votammo ci fu la modifica dell’art.81. Si disse  che  ce  lo chiedeva “l’Europa” ma in verità erano  i poteri finanziari europei e non solo europei a pretendere una sorta di soggiogamento (una umiliazione tipo le “forche caudine” ) della autonomia della politica alle ragioni del “rigore” dei conti propugnato dalla Germania imperante. Aver ceduto pesò molto negativamente sul voto  del 2013 e non solo per il PD . A proporlo oggi con lo spread a livelli “normali” vorrei vedere chi la voterebbe! Ci sarebbe una ribellione mentre  allora vedevamo il default dell’Italia davanti a noi e ci siamo fatti prendere per il collo. Io non sono più in Parlamento ma direi a quelli che sono comunque colleghi: mai più una riforma della Costituzione  della cui bontà non si sia certi.

Ho preso in considerazione il fatto che ancorché  si tolgano alle regioni potestà legislative importanti, poi alla fin fine comunque una classe dirigente rappresentativa delle regioni e delle autonomie, potrà con un cervellotico percorso, dire la propria anche sul complesso della legislazione nazionale. E’ un argomento politico interessante ma non sufficiente perché, e qui viene a galla uno dei nodi dello sciagurato combinato disposto fra legge elettorale e riforma costituzionale, una Camera blindata con l’aggiunta della possibilità per alcuni provvedimenti “essenziali per l’attuazione del programma di governo” di imporre una data certa per la loro approvazione, può fare oggettivamente quello che vuole e rendere vano e frustrante il ruolo del nuovo Senato.

Ho preso in considerazione il fatto che si sostiene che con la riforma si otterrà un processo legislativo più semplice e più rapido. Oddio, a leggere il nuovo articolo 70 non ne sarei così certo! Comunque  per me  si tratta di un argomento di nessun interesse. I tempi di approvazione delle leggi in verità non sono e non sono mai stati un problema. I problemi che bloccano certe leggi sono esclusivamente politici e non hanno nulla a che vedere con l’architettura costituzionale, basti pensare a qualche oggetto di legge sui diritti civili per rendersene conto. Le leggi in Italia sono troppe, l’attività legislativa è eccessiva, il peso del Governo nel processo legislativo è dominante, le leggi sono fatte male perché sono leggi di eccessivo dettaglio e finalizzate a derogare  norme generali anche  di fonte europea per favorire questa o quel gruppo di interesse, oppure piegate alla improvvisazione di chi deve assecondare qualche sondaggio. Le leggi devono essere di numero molto inferiore, devono essere leggi generali e demandare semmai alla legislazione regionale,all’autonomia degli Enti locali e alla responsabilità della pubblica amministrazione ,  una traduzione che può tenere conto di possibili e motivate  articolazioni. Quindi questo argomento è inconsistente.

Ho preso in considerazione il tema del risparmio, e qui hanno avuto buon gioco coloro che hanno immediatamente segnalato che come già è avvenuto con le province ( quella vicenda dovrebbe essere valutata bene perché molto istruttiva!!!) i risparmi sono minimi e avrebbero potuto essere molto più consistenti se a fianco ad un senato di 100 componenti si fosse portata la Camera a 450. Oppure se si fosse proceduto alla costituzionalizzazione della Conferenza Stato Regioni Città ( oggi  si chiama Conferenza Unificata) e si fosse del tutto abolito il Senato. Che si insista da parte dei leaders del PD con questi argomenti buoni solo per portare ulteriore delegittimazione alla politica e alla funzione parlamentare mi risulta poi incomprensibile e urticante. Chi di demagogia ferisce di demagogia perisce e non vale solo per i “5 stelle” a Roma!

Ho preso in considerazione l’argomento di un rafforzamento della stabilità dei Governi. Tema dibattuto da molti anni  che dipende sostanzialmente dalla dialettica politica, dalla legge elettorale, e poco o nulla dalla Costituzione. Era comunque da attendersi che la riforma prevedesse due istituti funzionali alla stabilità dei Governi e alla durata della legislatura: il potere per il capo del Governo di nominare e revocare i ministri, l’istituto della sfiducia costruttiva. Non ci sono! Mentre  il modello scelto  combinato con la legge elettorale in vigore è capace di stravolgere il principio di rappresentanza, porta ulteriore materia ad una concentrazione su  Palazzo Chigi per me già eccessivo per quanto concerne la produzione legislativa, le relazioni con le autonomie regionali e locali, con i soggetti economici. Vi leggo infine una sorta di resa anche sul modello di Europa. Da anni diciamo che l’Europa è entrata in un “cul de sac” perché è troppo Europa dei Governi e poco dei cittadini e del Parlamento. Qui ho la sensazione che portiamo ulteriore materia a questa deriva.

L’esame che ho sommariamente riassunto ha rappresentato il fondamento del  mio convincimento a votare NO e mi ha anche  portato a leggere la Riforma con una lente capace di allargare lo sguardo ad  una riflessione politica più profonda e a riscontrare come molti argomenti portati dai proponenti si incastrino perfettamente in uno scenario che non intendo avallare in nessun modo  e che ritengo invece importante contrastare, un dato politico per me allo stato attuale insuperabile. Provo a spiegarmi.

Noi discutiamo della nostra Costituzione dentro ad un contesto di grande cambiamento/crisi della democrazia occidentale e se guardiamo con occhi di verità a questo fenomeno cosa emerge? Emerge che   sotto la spinta di mercati sovranazionali non regolati, della finanza che ha soppiantato la produzione di ricchezza materiale, di una cultura iperliberista , le democrazie nazionali si vanno paurosamente  indebolendo e non vengono sostituite da consessi democratici sovranazionali;  la politica perde di ruolo perché incapace di condizionare l’economia e ne viene soggiogata, le ingiustizie sociali si aggravano spaventosamente, le guerre e i fondamentalismi  crescono,   i populismi ( che sono  il sintomo e non la causa della crisi)  dilagano.

Insomma  lo spazio democratico si va restringendo e con esso crolla il “fascino dell’occidente” fatto di libertà, democrazia, mercato regolato, benessere sociale . Si affermano vere e proprie oligarchie  dove è il denaro a dettare la linea che cercano di imporre  una revisione in peggio di tutte quelle “virtù”.

Questo restringimento degli spazi democratici avviene a danno delle forme democratiche di partecipazione dei cittadini, della partecipazione elettorale ( cosa che sembra non interessare gran  che!), delle autonomie locali, dei sindacati, dei partiti politici organizzati.

Oggi anche a destra si starnazza contro il populismo, ma il populismo è figlio dell’ iperliberismo. Sono i vari Reagan, Thatcher  ad aver cominciato ad aizzare la gente contro le amministrazioni pubbliche, contro i sindacati,  contro le tasse, contro i beni comuni e  oggi i loro eredi sono allarmati perché i populisti se la prendono con le banche e con tutto ciò che ha forma di establishment. Avviene un pò quello che è accaduto con l’estremismo islamico che qualcuno ha  accudito, armato, fatto crescere  in funzione di giochi geopolitici per poi trovarselo in casa.

I governi    invece di contrastare questa deriva  cercano sempre più legittimazione da parte dei poteri economici forti, della finanza, e si adeguano a questa crisi della democrazia. Prevale un sentimento becero e pericoloso: meno siamo a decidere e meglio stiamo! L’Italia non fa eccezione.

Questa deriva non segna soltanto il carattere liberista di certi governi di destra ma ha contagiato drammaticamente anche la cultura della  sinistra democratica  che  incapace a  reagire pensa di cavarsela assecondando, con qualche limitazione dei danni, la corrente imperante.

Allora la discussione sulla Costituzione non può che tenerne conto, anzi a ben vedere è una discussione  del tutto organica a questo contesto.

Le Costituzioni oggi come nei tempi in cui furono strappate dai popoli ai sovrani assoluti a costo di rivoluzioni, sollevazioni, stragi, restaurazioni e ancora rivoluzioni, hanno come compito principale quello di tutelare il cittadino dagli abusi del potere: di chi detiene il potere esecutivo, il potere giudiziario, il potere militare, il potere religioso.

La Costituzione non è uno strumento a disposizione del potere ma al contrario è un potente deterrente a disposizione del popolo rispetto al potere di chi può determinare il contenuto di una legge, può disporre di un esercito e con esso della guerra  e della pace, di chi può limitare la libertà personale in nome della Giustizia, di chi fosse tentato di trasformare una fede religiosa in potere politico. In secondo luogo la Costituzione, la nostra in particolare, si preoccupa di delineare una armonia civile e sociale impegnando il legislatore a tenere unito il popolo garantendo diritti individuali, beni comuni fondamentali come la salute, l’educazione, il paesaggio, l’ambiente. In questo senso è una Costituzione proattiva, che va al di la di una mera enunciazione di principi essendo essa stessa norma cui si devono adeguare le leggi. Infine la Costituzione armonizza il sistema delle relazioni all’interno del sistema istituzionale fra Parlamento e Governo, fra questi e il potere giudiziario, fra centro e periferia, individuando il Presidente della repubblica come garante di uno snodo articolato e complesso.

La Costituzione non può fornirci risposte “a’la carte” a problemi squisitamente politici. Insomma se i partiti politici, o la classe politica che viene selezionata con libere elezioni fa disastri la Costituzione difficilmente può evitarli, ma con i suoi principi, le sue regole, con l’attività degli organi  chiamati a tutelarla, può arginarne gli effetti in modo significativo e soprattutto, grazie all’autonomia dei diversi poteri e all’equilibrio fra di loro,  impedisce che finiscano per compromettere in modo irreparabile il sistema voluto dai costituenti.

La Costituzione si può modificare, ma il “patto costituente”che si sostanzia nella sua prima parte assolutamente no. Sarebbe necessaria una rivoluzione, un colpo di Stato per poterlo fare e siccome le diversi parti della Carta sono relazionate fra loro anche laddove la Costituzione si può modificare è l’anima del  “patto costituente” che fa da guida.

Si pensi a come la nostra Costituzione ha tenuto ancorato al sistema le forze politiche italiane attraversate, come in nessun altro paese occidentale,  dalla faglia rappresentata dallo scontro Est- Ovest ai tempi della Guerra Fredda. Eravamo al di qua del muro e il secondo partito per forza elettorale si ispirava a regimi che stavano al di la del muro. Mica bazzecole! Eppure il “patto costituente” ci ha tenuto insieme. Ha tenuto insieme i partigiani e i militari che servendo l’esercito avevano servito il fascismo e imprigionato gli antifascisti portando gli uni e gli altri a raccogliersi davanti alle lapidi che ricordano i partigiani caduti. Questa è stata la potenza del “patto costituente”.

Ai tempi della democrazia bloccata ha rappresentato un argine allo strapotere di un partito, la DC, del quale si dice fu “costretto a governare”.  La nostra Carta, pur non potendo impedire che il “sistema di potere democristiano” al riparo da alternative possibili conoscesse fra indiscussi pregi anche degenerazioni gravi in termini di gestione clientelare della amministrazione pubblica e della economia, di rapporti con la mafia e  con pezzi di criminalità organizzata, con poteri occulti e frange eversive ancora legate al fascismo, tutte eredità che  segnano profondamente ancora oggi il sistema paese, ha comunque fatto in modo che  mai ciò abbia portato a svuotare del tutto  o a spezzare il “patto costituente” o ad alterare in modo irreparabile la dialettica democratica.

L’autonomia nazionale fortemente limitata dal ruolo della NATO e dal potere invadente  degli USA è stato un fatto per certi versi molto  dannoso, ma ciò non di meno pagando anche prezzi altissimi e penso a Mattei e a Moro, il “patto costituente” ha consentito che l’Italia sviluppasse politiche sue proprie sul piano energetico, sulle relazioni internazionali , sulle scelte sociali e convivesse con il più grande partito comunista d’occidente salvaguardando l’unità nazionale.

E quando il sistema dei partiti figli della stagione post bellica  è crollato, e la classe politica ha visto l’ingresso di nuovi protagonisti “eccentrici” rispetto a quelli che avevano dato vita al “patto costituente”, la Carta non ha potuto, ne doveva, impedire che Berlusconi- Dell’Utri con tanto di  “stalliere di Arcore” arrivassero al Governo per volontà degli elettori, ma certo  ha impedito il totale  dispiegarsi di un programma che ripercorreva in modo stupefacente “il piano di rinascita” della loggia massonica  P2.

E nessuno pensi che la secessione propagandata da Bossi e soci fosse uno scherzo. Eppure anche quella crisi  fu assorbita e quel modello federalista egoistico che i “paladini del Nord” propugnavano ricondotto dentro a una dialettica democratica e ad una cornice costituzionale forte.

In quella stagione, che segna l’aprirsi di una profonda crisi della rappresentanza  democratica e di stravolgimento del sistema politico, la Carta  ha messo in evidenza anche le sue importanti doti di  flessibilità autoriformatrice, portando a conclusione, purtroppo solo parziale,un processo di ampliamento della responsabilità democratica investendo di nuove funzioni e poteri le regioni e le autonomie locali senza compromettere l’unità nazionale.

Questo processo riformatore della Costituzione accompagnato da leggi ordinarie in materia elettorale, in materia di riforma della amministrazione ecc. oggi è molto sottovalutato ma fu la vera risposta alla crisi democratica e morale che investiva il paese.

E quando l’asse Berlusconi- Bossi tentò sulla base dei loro programmi che ho citato sopra di spingere  la  riforma costituzionale al limite della rottura del “patto costituente”  fu  il popolo italiano con il referendum del 2006 a bocciarne le decisioni rendendole nulle.

Si trattava della riforma partorita con il  “patto di  Lorenzago” dal luogo in cui i rappresentanti dei partiti di maggioranza FI,Lega, UDC, AN si riunirono.

i quattro avranno parecchia
compagnia, e soprattutto sentiranno un bel po’ di fiato sul collo da parte
dell’asse Forza Italia-Lega, pronto a scattare ancora una volta per
orientare la coalizione verso un progetto che tenga insieme il massimo
rafforzamento dei poteri del premier e il massimo decentramento di
competenze alle regioni: devolution e premierato, una coppia perfetta per
i gusti del premier e di Bossi”.

 Così scriveva il quotidiano Europa per sottolineare la difficoltà della parte centrista di quella alleanza. Invece paradossalmente dopo la bocciatura da parte del popolo italiano della riforma costituzionale si salvò solo il pezzo fortemente voluto dall’UDC:  il “porcellum”.  Si deve attendere il dicembre del 2013 per vederlo a sua volta bocciare dalla Corte Costituzionale.

Come si vede le prove sono state ardue e  le minacce alla sostanza del “patto costituente”  non sono certo mancate ma esso si è rivelato per fortuna degli italiani vigile,  vivo e vitale e in quei giorni del 2003 fu Ciampi con forza  a rivendicare questo carattere “giovane”  della nostra Carta.

Auspicavo un completamento della riforma parziale che il popolo italiano approvò con referendum nel 2001, l’unica  ratificata dal  popolo sovrano. Questo significava fare un vero Senato delle Regioni e delle Autonomie e affrontare il tema del federalismo fiscale.  Invece non posso che condividere il testo dei 56 costituzionalisti per il NO che al punto 4 dice:

 L’assetto regionale della Repubblica uscirebbe da questa riforma fortemente indebolito attraverso un riparto di competenze che alle Regioni toglierebbe quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia, e senza garantire adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali). Il dichiarato intento di ridurre il contenzioso fra Stato e Regioni viene contraddetto perché non si è preso atto che le radici del contenzioso medesimo non si trovano nei criteri di ripartizione delle competenze per materia – che non possono mai essere separate con un taglio netto – ma piuttosto nella mancanza di una coerente legislazione statale di attuazione: senza dire che il progetto da un lato pretende di eliminare le competenze concorrenti, dall’altro definisce in molte materie una competenza «esclusiva» dello Stato riferita però, ambiguamente, alle sole «disposizioni generali e comuni». Si è rinunciato a costruire strumenti efficienti di cooperazione fra centro e periferia. Invece di limitarsi a correggere alcuni specifici errori della riforma del 2001, promuovendone una migliore attuazione, il nuovo progetto tende sostanzialmente, a soli quindici anni di distanza, a rovesciarne l’impostazione, assumendo obiettivi non solo diversi ma opposti a quelli allora perseguiti di rafforzamento del sistema delle autonomie.”

Personalmente sono sempre stato convinto che l’anima costituzionale di un federalismo solidale e cooperativo stesse proprio nella legislazione concorrente prevista l’art.117 della Costituzione. E fanno bene i professori a smontare la chiacchiera che sia la legislazione concorrente alla base del contenzioso fra Regioni e Stato di fronte alla Corte.

Il nuovo art. 117 sostanzialmente segna la sanzione di un neo centralismo scientificamente perseguito in questi anni in particolare dalla cultura politica che ha nei poteri intonsi della cosiddetta “prima repubblica” i suoi riferimenti.

Questo fa il paio con il fatto che dopo la riforma del 2001 invece che andare in direzione della attuazione dell’art.119 della Costituzione in materia di autonomia finanziaria delle amministrazioni locali stiamo assistendo “ad una profonda ed ingiustificata alterazione dei principi fondamentali che da sempre e ovunque riguardano l’autonomia fiscale  degli enti territoriali” ( prof. Luca Antonini)

A maggiore rafforzamento di quanto sto dicendo rilevo il fatto che a questo fantomatico Senato delle Autonomie non è consentito di concorrere alla  approvazione  la legge di Bilancio ovvero quella legge che può decidere dell’ossigeno di cui possono vivere comuni, città metropolitane e regioni.

Meno poteri, meno autonomia, meno soldi, meno possibilità di esercitare una vera responsabilità di governo. Devo  dolorosamente prendere atto  non siamo in presenza del  completamento della  riforma del 2001 ma ad una forte  marcia indietro con rischio di un suo definitivo affossamento.

E’ troppo anche per un autonomista paziente e tenace come me. Una occasione persa purtroppo con tanti punti bui per la democrazia qual’ora non si procedesse a rivedere l’Italicum e la forma di elezione dei senatori.

Per tutto questo voterò NO.