“Pensare una terza repubblica significherebbe fare i conti con il ventennio berlusconiano e su ciò che è accaduto nel frattempo alla politica, alla democrazia, alle istituzioni nazionali e locali, all’Europa, all’economia, alla finanza, al sistema di protezione sociale, al lavoro. Questa consapevolezza io non l’avverto e quindi avverto il rischio che più che una discontinuità con il berlusconismo possiamo trovarci, consapevolmente o no , dentro ad un continuismo con il ventennio, fatto da persone certamente diverse ma che hanno alle spalle gli stessi poteri, gli stessi interessi e usano gli stessi metodi e che temo produrranno gli stessi risultati.”
Era il 3 febbraio del 2014 e scrivevo così su questo blog, stimolato da commentatori che riempivano le colonne dei giornali evocando l’avvenire luminoso di una Terza Repubblica frutto dell’avvento di Renzi e dell’intesa sui temi istituzionali fra lo stesso e Berlusconi.
Oggi sono passati poco meno di due anni e mezzo e siamo ad appena tre giorni da una delle più pesanti sconfitte elettorali per il centro sinistra degli ultimi 10 anni.
Giustamente Renzi chiede che del voto non venga data una lettura banale, come dargli torto, anzi mi rasserena che lo dica poiché mi era sembrata una cosa diversa leggendo sul “Corriere della Sera” un suo virgolettato rivolto alla sconfitta di Fassino. Si tratta effettivamente di un voto molto profondo nelle sue motivazioni e contraddittorio nelle sue espressioni.
Intanto noto con piacere che non si stanno usando categorie del tipo: è un voto antipolitico, oppure è un voto di protesta. Questo è un voto ad alto asso di politicità:
perché la protesta organizzata è una espressione primaria della politica;
perché si tratta di un voto meditato e maturato nel tempo, tutto il tempo intercorso fra l’illusione che Renzi sarebbe stata l’opportunità vincente per assorbire voti in libera uscita da destra in presenza di un PDL allo sbando ( l’accordo con Berlusconi puntava anche a questo) e di prosciugare con la ” rottamazione” il voto che pensavamo estemporaneo ai 5 Stelle;
perché ha premiato chi di volta in volta si è rappresentato come interlocutore non di un generico cambiamento, ma di una aspettativa di cambiamento che ha precisi riferimenti ad una idea sociale, della democrazia, dell’esercizio del governo anche solo qualificandosi in negativo.
Il volto dei vincenti non ha ovunque le stesse fattezze:
ha il carattere sociale di Milano e Bologna che vogliono mantenere quel loro profilo di rigore ed efficienza amministrativa unito ad una idea di sinistra di governo esplicita nelle sue motivazioni ideali e che non lascia soli chi sta peggio di cui i cittadini sentono ancora la forza;
ha il carattere della speranza delle periferie di Roma e di Torino incomparabilmente diverse fra loro ma forse unite dalla sensazione di essere troppo poco considerate, più trascurate di quanto non lo siano i loro bei centri storici dove si concentra l’elite e dove si “fanno i giochi” fra poteri apparsi impermeabili al “grido di dolore” di chi fa fatica, molta fatica;
ha il volto di una proposta di speranza unita ad una proposta di democrazia diretta che scavalca i partiti e fa uso delle tecnologie per dare una (parvenza?) di voce a chi non l’ha. E’ già accaduto a Barcellona, a Madrid;
ha il carattere vetero-paternalistico di Mastella molto più simile a De Magistris di quanto non si creda e che ha il pregio di essere “tattile”, un potere che puoi toccare perché è li fra i banchi del mercato o nello struscio del corso, disponibile ad ascoltarti il che non significa che poi risolva, però intanto è meglio di niente. Nel mezzogiorno credo che siamo al ritorno in grande stile della prima repubblica, del resto la vittoria di De Luca in regione e ancora di più nella sua Salerno e il tentativo maldestro della Valente era tutto nelle coordinate della politica d’antan.
In tutte queste facce molto diverse fra loro che il voto appalesa c’è comunque un anima sociale profonda, dolente, impaurita, schifata di certa politica, sola, periferica territorialmente e mentalmente, che si vede molto bene da un comune e si vede sempre meno bene da un Palazzo Chigi sempre più luogo di questuanti e adulatori.
Un anima sociale che è stata tradizionalmente pane quotidiano della sinistra e che invece la sinistra fa fatica ad interpretare, a capire, a rappresentare per scarsa credibilità e scarsa autenticità, ma soprattutto per abbandono del campo.
Oggi mi sento di sciogliere il dubbio che avevo a febbraio del 2014. Nessuna terza Repubblica, Renzi si è limitato ad occupare il potere, ha lavorato abilmente per accentrarlo su di se e per distribuirlo ad una cerchia fidata. Non ha sconquassato o rottamato proprio niente anzi in qualche caso ha riciclato, il cambiamento messo in atto non risponde a canoni comprensibili dal corpo sociale in particolare dal nostro corpo sociale. Questo si è visto talmente bene in questi anni che il malessere invece di essere assorbito si è esteso parallelamente all’incapacità di capirlo. Ci sono dichiarazioni di Renzi e della cerchia più stretta del suo gruppo dirigente che oggi sono esattamente opposte a quelle del periodo in cui saliva sugli scudi.
Solo chi fa finta di non capire può dire che il voto nelle più grandi città italiane è un voto locale. Solo chi ha smarrito il senso di un progetto può irridere i milioni di persone che sono andati a dire Sì al referendum sulle trivelle, può insistere su un tema divisivo come il referendum costituzionale nel bel mezzo di una campagna elettorale dove in gioco ci sono cose concretissime come i servizi all’infanzia e agli anziani, i trasporti, la sicurezza urbana, la difesa dell’ambiente, la cultura. E che dire del No Tax Day? E della cecità di aprire il dibattito su come anticipare il pensionamento facendo una proposta che garantisce una rendita alle banche a scapito di chi ha versato i contributi per una vita proprio quando sono aperte le ferite dovute al fallimento delle banche stesse?
La spina che ci connetteva al paese si è staccata. Le antenne non ricevono il segnale.
Attenzione che anche il referendum costituzionale rischia di essere letto così: legge elettorale e riforma della costituzione non sono che gli strumenti per consolidare un accentramento del proprio potere personale, un consolidamento di una idea proprietaria del potere, nella speranza di prolungarne la gestione che prova fastidio di ciò che è plurale, del dialogo e del confronto, del riconoscimento del ruolo dei corpi sociali. Una democrazia decidente? Ma per chi, per cosa, per quali interessi.
Se passa questa lettura non c’è scampo. Perché sotto la pelle esteriore della comunicazione c’è un ascensore sociale non solo bloccato ma che sta scendendo, c’è un indice di disuguaglianza che è cresciuto, c’è un aumento nell’uso dei voucher del 43%  nei primi 4 mesi di quest’anno rispetto ai dati record dello scorso anno, perché gli imprenditori così adulati dal presidente del consiglio contrattano ormai “ad personam” il salario orario ben al di sotto delle tabelle decise dai contratti collettivi , perché un insegnante precario aspetta a volte mesi prima di vedere lo stipendio e deve mangiare tutti i giorni, perché nelle campagne c’è una guerra arbitrata dai caporali fra operai e immigrati, perché ci sono 11 milioni di persone che nel 2015 hanno rinunciato alle cure e hanno sentito il Governo che non dava 2 miliardi alle regioni in barba agli accordi assunti dicendo che così si spingeva verso il taglio degli sprechi , e purtroppo hanno assistito anche alla scena muta delle regioni ( tranne Chiamparino).
Ora fatto questo scenario realistico , sperando che venga acquisito e che provochi una svolta nei contenuti della strategia di governo si porrà anche il problema di come sviluppare le politiche.
Non voglio parlare del partito ne parlano tutti, ora anche quelli che “il partito è il governo”, il che non significa che si faccia qualcosa per cambiare se non si combatte a viso aperto.
Mi interessa come le politiche si possono sviluppare nello scenario istituzionale che questo voto ha portato alla luce e di cui bisognerà prendere le misure.
Il Governo Renzi ha lavorato alla delegittimazione sistematica delle regioni, ha proceduto alle “riforma “ delle province lasciando scoperta molta parte della governance territoriale che questi livelli garantivano. Ha via via allontanato l’attenzione dal complesso delle realtà comunali.
Il vero interlocutore del Governo sono state le grandi città. La vera riforma costituzionale che è maturata negli anni dal ventre dell’ANCI ed è diventata strategia di governo nazionale è il rapporto diretto fra Palazzo Chigi e le 12 città “metropolitane”. Una grave sgrammaticatura sul piano storico oltre che istituzionale. Se leggete in controluce la stessa proposta di nuovo Titolo V della Costituzione si vede benissimo che questo è il criterio guida. Così si controllano i flussi di finanziamento, così si radica un potere semplificato nelle relazioni ma che copre comunque una fetta larghissima della popolazione. Così si creano i legami di potere con il mondo imprenditoriale, quello delle reti, quello dei servizi, quello dell’immobiliare.
Però. Però c’è un però. Però c’è il popolo e qualche volta nel loro piccolo anche le formiche s’incazzano. Oggi di queste città 4 guidate da quella che fu la stagione arancione ( Palermo, Napoli, Cagliari, Genova), 5 dal PD ( Milano, Bologna, Firenze, Bari, Catania), 1 dal centro destra (Venezia), 2 dal movimento 5 Stelle (Roma e Torino). E soprattutto tutte sentono il morso delle periferie, della gente che sta male socialmente che ha paura dei furti nelle abitazioni e delle grandi e piccole violenze che si è costretti a subire per strada o nei mezzi pubblici.
Mi pare una complicazione non da poco che impone una riconsiderazione di una strategia che personalmente non mi ha mai convinto. Opterei per un rapporto più ordinato che veda un riallineamento su quello che era l’aspirazione del vecchio Titolo V : un governo centrale che devolve potere e funzioni ad un sistema locale. Insisto ad un SISTEMA LOCALE e non ad un club di città.
Questo consiglierebbe di votare per parti al prossimo referendum, ma dicono che non si può. Vedremo. In alternativa ritengo che sarebbe bene tornarci sopra, fare un altro giro per correggere questa stortura.
Ma forse è troppo aspettarsi un tale atto di saggia umiltà.
Comunque finisco con un consiglio: Renzi smetta di dire che se perde il referendum se ne va, con il codazzo che gli fa l’eco…anch’io, anch’ioooo. Perche avvalora che sia una sua personale battaglia di solo potere e quindi lo perde!