FabLab Alterini-Arezzo ovvero una risposta ai luoghi comuni sulla mancanza di manodopera

una torica accesa nel buio  parolaio che ci circonda a proposito dei giovani e il lavoro qualificato

Politica- 5 minuti lettura

1 E’ un ritornello di questi tempi strani che, pur in presenza di una domanda di lavoro crescente e un’alta  percentuale  di disoccupati, non si trovino lavoratori per le aziende manifatturiere, l’edilizia, per laboratori e uffici che richiedono professionalità adeguate. Si incolpa il reddito di cittadinanza e dall’altra si risponde che sono le paghe ad essere troppo basse. Si chiamano in causa le famiglie che hanno diseducato i propri figli al lavoro, alla fatica e dall’altra si ribatte che no, sono le imprese che hanno svalutato il lavoro rompendo il legame affettivo che un tempo univa fabbrica e lavoratori. Troppe le forme di lavoro precario e l’apprendistato svalutato. Pochi gli investimenti sulle aziende e troppa ricerca del guadagno facile ieri con la speculazione immobiliare e oggi con la finanza. Poi ci si mette di mezzo anche  la globalizzazione, le multinazionali che aprono in territori dove possono approfittare delle facilitazioni previste dai governi salvo  poi chiudere licenziando con un whatsapp per rincorrere la concorrenza sleale fatta da altri governi con bassi salari e  politiche fiscali anche all’interno della stessa zona euro. Una cosa sembrava certa dopo la crisi del 2007 e del 2011: la manifattura italiana in crisi irreversibile. Lo si vedeva nelle Marche, in Umbria in alcune province della Toscana cioè in quel centro Italia che con le radici ben piantate nel Medioevo ha saputo custodire una secolare rete di laboratori artigiani, piccole e micro imprese familiari. Insomma ormai la manifattura è in mano cinese e c’è poco o niente da fare. Poi arriva la pandemia e si scopre che neanche questo è vero in assoluto, che certo la Cina è ormai la fabbrica del mondo ma ci sono cose che bisogna tornare a fare qui vicino a casa, che è meglio puntare su qualcosa di prossimo senza rimanere appesi a forniture le cui consegne tardano e costano sempre di più. Ecco che allora le opinioni diverse e conflittuali alla fine convergono su una consapevolezza comune: in Italia il paese del saper fare bene, bello, creativo, abbiamo smesso di formare le persone capaci di fare bene bello e creativo. E stavolta non per cadere nella solita trappola per cui se non è colpa di nessuno è certamente colpa della scuola. No, siamo noi governi nazionali e locali, noi aziende, noi famiglie, noi scuola tutti assieme che abbiamo smesso di dare valore alla formazione tecnica e professionale di dar valore al lavoro fatto per bene. In un paese come l’Italia è come aver bestemmiato in Chiesa. La questione diventa oggetto di dibattito, tutti ne invocano la soluzione, anche la nostra rivista Civiltà delle Macchine dedica al problema un intero numero (n.2/2021) il PNRR prevede risorse da destinare. Insomma se ne parla molto. Ma io sono ormai poco paziente con le chiacchiere e i grandi piani. Mi piacciono le esperienze soprattutto se prima nascono e solo dopo vista la bontà dell’idea e la concreta realizzazione diventano pensiero e attirano risorse. Dopo la bella esperienza di Ca’ Tron ( ne ho scritto nel citato numero della rivista) mi viene incontro qualcosa di diametralmente diverso ma che sento convergente nello spirito. Un progetto cui agganciare il mio bisogno di esperienze concrete e una realtà che ha voglia di camminare con le sue gambe come la bicicletta di Vasco. E pensare che tutto nasce da una crisi e dagli occhi di uno studente che mettendo un cubo di ferro dentro ad un altro vince una borsa di studio! Bene allora si va, è ancora l’alba e per arrivare ad Arezzo ci vogliono  due ore e quaranta. Intanto tenete a mente: un alba, un gancio, un cubo, una bicicletta.

2 Da urbinate Arezzo per me è sempre stato un punto di caduta naturale, oltre l’appennino, con San Sepolcro e Monterchi sulle tracce di Piero della Francesca. Un giuntura di Toscana Umbria Marche e Emilia Romagna. Guardarla in mappa sembra competere con il birillo rosso del biliardo del caffé centrale di Foligno per il primato di centro d’Italia. Città di commerci e di produzione. Tessuti, metalli, oro in particolare ma non solo. Materiali con cui ha molto a che fare la piccola storia di cui parliamo che, direi, è anche storia di  donne. E’ Gino che facendo l’autista di camion nel Corno d’Africa  mette insieme un gruzzolo significativo che sarà necessario ad avviare l’azienda ma è Angiola sua moglie che, rimasta ad Arezzo, gliela fa trovare avviata mettendo in piedi una  attività di robivecchi: stracci  ferrami pellame carta  vetro. Materie prime da economia circolare. E’ proprio vero che non si inventa mai niente. Al rientro di Gino quella diventa la ditta individuale Alterini Gino registrata al  Consiglio provinciale dell’Economia Corporativa al n.14695 del 25 febbraio 1939 XVII dell’era fascista. I cumuli di ferro e stracci crescono e saranno molto richiesti, finita la guerra, per la ripresa della vita civile e lavorativa. Neppure la distruzione della casa a seguito dei bombardamenti riuscirono a fermare Gino e Angiola nella spinta verso un futuro sempre più organizzato e solido. Solido come il ferro che diventa gradualmente il cuore dell’azienda. Sarà Altero detto Vasco, quello della bicicletta, a prendere le redini dell’azienda di famiglia e a tenerla unita con i fratelli attorno ai depositi di via Madonna del Prato. Una delle tante aziende familiari italiane in cui il concetto di responsabilità sociale non aveva bisogno di essere elaborato in seriosi convegni perché era insito nelle relazioni umane con gli operai e le loro famiglie, nel rapporto con le istituzioni comunali e territoriali, nelle relazioni commerciali per cui la parola davvero valeva più di uno scritto e una figuraccia pesava più di una condanna. Rigore. Vasco fa in tempo a godersi l’ottantesimo della azienda nel 2019 e a pronunciare uno dei suoi “Eh” vedendo il “Cubo di Vasco” vincitore della borsa di studio bandita nel 2018.

. Il cambio generazionale è per queste aziende un tallone d’Achille per cui non c’è rimedio. Una crisi di passaggio che non fa sconti a nessuno. La simbiosi fra uomo e azienda è tale che trasfonde nei muri e nelle macchine un ciclo vitale umano, i futuristi lo avevano percepito perfettamente,  tanto che  troppo spesso “simul stabunt vel simul cadent”. Anche per questo la specificità nazionale delle piccole e micro imprese viene trattata da troppi commentatori sbrigativamente, come una eredità di cui liberarsi in fretta. Anche per la Alterini, quindici dipendenti appena e pochi milioni di fatturato, quel momento è arrivato e non certo per la pandemia che anzi ha evidenziato come in emergenza queste aziende di prossimità siano essenziali. Paolo e Mariangela figli di Elda e Vasco non mollano. Elaborano il lutto, posizionano in bella evidenza la bicicletta che ogni mattina parla loro un linguaggio chiarissimo. Sistemate le cose di famiglia decidono che è tempo di rilanciare ripartendo proprio da una versione aggiornata della responsabilità sociale dell’impresa. La cultura del saper fare bene non si può rottamare e il valore aggiunto della “memoria”, che Mariangela (non tutti sanno che di norma le donne venivano tenute fuori dalle aziende di famiglia) ha coltivato nelle sue esperienze lavorative con i musei d’impresa oggi di Leonardo, diventa un additivo che accende il nuovo corso. Un impasto saporito come quello dei crostini neri quello fra la visione di Mariangela e il lavoro duro di Paolo che è possibile trovare in azienda ancora a mezzanotte. “vogliamo che si realizzi una nuova contaminazione di saperi verso un Rinascimento 4.0, per promuovere la cultura e la formazione per lo sviluppo dei territori e delle comunità, unire la conoscenza tecnica, scientifica e la ricerca con la cultura e le arti verso un umanesimo tecnologico. Il tema vero do oggi sono le competenze delle persone. Quindi la loro formazione” su questo concordano e concordemente agiscono.

Ma se non ci metti del tuo le chiacchiere stanno a zero. Ed ecco che una palazzina di 300 mq, pur in un momento di oggettiva necessità, invece di essere affittata o venduta  diventa il FabLab- Alterini. Uno spazio da dedicare alla memoria, alla formazione e alla creatività. Ma come si fa concretamente a far decollare una esperienza di questo tipo? io l’ho capita così. Non c’è niente da inventare quello che serve è tutto lì a disposizione basta saperlo  vedere metterlo insieme e saperlo fare. Come un blocco di marmo contiene una scultura, un tubo di ferro una lampada, un vecchio filo di ferro un cestino, dei trabattelli  tavoli con le ruote. Basta saper vedere le tante forme che la materia contiene. Ed è così anche in un progetto immateriale formativo. “Aiutateci a trovare lavoratori con voglia di lavorare e che sappiano leggere un disegno tecnico” chiedono le aziende. “Fateci uscire dal cono d’ombra” chiedono gli istituti tecnici e le scuole professionali. Poi  ci sono le leggi piene di buona volontà e di altrettanti fallimenti che prevedono l’alternanza scuola lavoro, ci sono  la Camera di Commercio e le associazioni imprenditoriali, c’è la Regione e la sua competenza sulla formazione finanziata da fondi europei. Tutto questo insieme va fatto girare per il verso giusto rompendo le ritualità che producono solo paralisi.  Ma soprattutto ci sono loro i ragazzi. Appena li fai uscire dal tran tran scattano dal divano e dagli smartphone, drizzano la testa stancamente appoggiata sul palmo della mano, accendono gli occhi, si appassionano ad un vecchio banco da lavoro a tutti quegli attrezzi strani, si incuriosiscono davanti al racconto delle diverse tipologie di metalli, guardano rapiti vecchi filmati di fonderia, un vecchio ciclostile, le prime calcolatrici, percepiscono fisicamente le mille forme che il ferro può assumere e la creatività si accende dentro di loro. Capiscono che  tra i vecchi strumenti , le macchine del FabLab al piano terra e la creatività supportata dalle nuove tecnologie del piano primo, tra l’odore di ferro e grasso di cui è impregnato il vecchio bancone al piano terra a quello pulito del piano primo c’è una continuità indissolubile che sta nel cervello e nelle mani dell’uomo.

Perché sprecare le ore di alternanza scuola lavoro ospitando dei ragazzi in aziende che se va bene fanno fare loro  le fotocopie. Molto meglio che le scuole ne selezionino un gruppo e li inviino al FabLab, che le aziende attraverso le loro associazioni si iscrivano al FabLab e svolgano lì quel dovere sociale di accoglienza e di tutoraggio dei giovani. Anche per i docenti è una opportunità perché non devono svolgere semplicemente la pratica burocratica del monitoraggio dell’esperienza scuola lavoro ma si trovano coinvolti in un team che da l’indirizzo scientifico al FabLab, e questo fa bene anche a loro. E’ l’uovo di Colombo? No. Mettere insieme tante cose separate in una visione coerente e unitaria, farle dialogare e collaborare è uno dei lavori più moderni difficili e impegnativi. Ci vuole capacità e determinazione perché la pigrizia, lo stare ognuno chiuso nel proprio orticello, la diffidenza verso le forme aperte di collaborazione, formano una realtà molto più dura del ferro da modellare. Ma se alla Confartigianato c’è una donna se la dirigente scolastica è donna la parola d’ordine “costruire alleanze serie” tanto cara a Mariangela si può concretizzare. Mentre parla ininterrottamente da poco meno di un ora la stanza dove siamo trema scossa dallo scorrere di un carro ponte che sposta grandi carichi di ferro.

3 A metà febbraio 2022 cominceranno i corsi. Le aziende che avranno aderito indicheranno un tema  al  lavoro dei  trenta ragazzi che l’Istituto professionale e l’Itis di Arezzo avranno selezionato. Le stesse aziende avranno cura di indicare un supervisor attraverso le loro associazioni, figure d’impresa, esperti della Regione, professori delle Università . Alla fine del percorso al miglior progetto verrà assegnata una borsa di studio. Negli anni il cerchio si allargherà e toccherà i confini del rapporto fra il lavoro l’arte il design coinvolgendo il Liceo artistico. Magari fra un po di tempo troveremo sul mercato prodotti frutto del lavoro del FAbLab. Non so se rendo l’idea, ma davvero tutto in questa storia  ruota attorno alla ricerca degli stimoli  più efficaci  da offrire ai giovani alla loro voglia di imparare e alla loro voglia di intraprendere.

Fra tanta retorica subdola e pelosa che si ascolta quando si tirano in ballo i giovani a me sembra che questa esperienza del FabLab Alterini sia onesta e concreta e non parli solo ad Arezzo, dove è stato pensato e viene realizzato caso primo ed unico, ma parla al Paese. Parla alla legislazione sul lavoro e in particolare a quella relativa all’apprendistato affinché questa modalità formativa  venga riconosciuta, parla alla  nuova frontiera della rendicontazione sulla sostenibilità ambientale e sociale dell’attività d’impresa in cui i FabLab  devono rientrare, parla alle banche che premino questi percorsi virtuosi.

Non so perché ma da quando ho cominciato a scrivere di questa esperienza mi frulla in testa una canzone. “se tutte le ragazze le ragazze del mondo si dessero la mano si dessero la mano…” il grande e indimenticabile Sergio Endrigo. Forse perché il tema è proprio questo, ogni piccola azienda come ogni donna ( chiedo scusa per questo parallelismo che non vuole essere in alcun modo offensivo) è una, unica e irripetibile ma per non essere oppressa e marginalizzata deve sapersi dare la mano. Poi c’è la cura, il deposito di memoria altri aspetti assimilabili alla sensibilità femminile.

La memoria, quante aziende potrebbero attingere alla loro come e più della Alterini per dare vita ad esperienze paragonabili. Questa corsa affannosa per tenere il passo dell’innovazione, che per lo più è innovazione strumentale, rischia di far dimenticare che la forza della miriade di piccole e micro aziende è proprio la memoria. E’ la memoria che le salva dalla omologazione massificante, che le fa rilucere nel grigiore del qui e ora. E’ la memoria che può affascinare i giovani e spingerli ad emulare l’impresa.

Allora mi immagino una rete nazionale di FabLab una specie di serbatoio genetico di quel fare impresa italiano a tutela della biodiversità territoriale. Mi immagino il FAI che nella mia provincia non organizza solo un percorso nelle bellezze dei palazzi del Rinascimento ma ci conduce  nei musei delle nostre imprese meccaniche del mobile del tessile dove giovani studenti degli istituti tecnici ci introducono alla conoscenza, non di reperti archeologici, ma di laboratori vivaci  di bellezza competenza innovazione. Quanta memoria ancora viva e vitale viene distrutta dal piattume che ci vien imposto dalla logica dei grandi numeri. Una deriva alla quale si può reagire. Ecco perché sono grato a Paolo e Mariangela per avermi consentito di fare questo viaggio nella loro esperienza. Del resto al fatto che la bellezza che sta nella mente e nelle mani dell’uomo salverà il mondo io c’ho sempre creduto o meglio non posso fare a meno di credere.